La soluzione per il futuro

Pasquale Giampietro - ABSTRACT : La presente ricerca, articolata in due Parti, prende in esame alcune delle questioni più rilevanti poste dall’applicazione, a partire dal 9.10.2011, del Regolamento n. 333/2011/CE sul recupero dei rottami metallici. Parte I - I nuovi obblighi gravanti sui “produttori” – recuperatori (par. 1); - il ruolo dell’accertamento di conformità del verificatore accreditato (par. 2); - gli effetti del Reg. sulle autorizzazioni rilasciate per il recupero dei rifiuti, con rito ordinario o semplificato (par. 3); - l’autonoma decorrenza del termine triennale per l’acquisizione dell’accertamento di conformità (del sistema di gestione della qualità) rispetto al termine di decorrenza del 9.10.2011 (par. 3.1.). Parte II - La dubbia legittimità del Reg. in relazione alla natura costitutiva e non dichiarativa (dell’E.o.W.) assegnata all’accertamento dell’organismo preposto alla valutazione di conformità (par. 4); - il carattere di “condizione”, assunta dall’accertamento, piuttosto che di “criterio” specifico, oggetto di delega da parte della Direttiva 2008/98 (par. 5); - motivazione dell’assunto in considerazione dei più limitati poteri conferiti alla Commissione, ex art. 6, par. 2 e avvenuto superamento dei limiti posti dalla delega (par. 6); natura di mera prova della verifica del terzo (della formazione o meno del prodotto o materia prima secondaria), estrinseca e successiva alla cessazione della qualifica di rifiuto che segue al completamento delle operazioni di recupero (par. 7); - presunto abbandono della nozione di “recupero completo”: confutazione della tesi (par. 7.1); - conclusioni sulla natura ed efficacia dell’accertamento del terzo, rispetto ai controlli pubblici, e libertà di prova, da parte del produttore, sull’avvenuto raggiungimento dell’E.o.W. (par. 8); - dubbi di legittimità a carico del Reg. per la natura costitutiva – anziché dichiarativa – dell’accertamento del verificatore e controlli della P.A. e dell’Autorità Giudiziaria: casistica (par. 8.2); - competenze statale esclusiva sul sistema dei mezzi di prova codificati dall’ordinamento interno (par. 8.3) e conferme desunte dai Reg. 765/2008 e n. 1221/2009 (par. 8.4); - superamento dei limiti della delega nella previsione dell’art. 3 del Reg. il quale riporta l’E.o.W. alla “cessione” dei rottami metallici anziché alla conclusione delle operazioni di recupero, modificando la nozione di rifiuto, in violazione della direttiva 2008/98 (par. 9). Conclusioni.

 

SOMMARIO
                    PARTE I
Par. 1.      I nuovi criteri di E.o.W. per i rottami di ferro, acciaio e alluminio.

Par. 2.     Cessazione della qualifica di rifiuto nel caso di mancanza dell’accertamento del verificatore accreditato. Possibile risposta formale.

Par. 3.     Prima ipotesi di superamento dell’ostacolo costituito dall’omesso accertamento del verificatore: risposta negativa.
Par. 3.1. Seconda ipotesi di superamento della condizione di omesso accertamento del verificatore: l’autonomia del termine relativo all’accertamento
di conformità.

                    PARTE II

Par. 4.   Su taluni profili di dubbia legittimità del criterio di individuazione dell’E.o.W., relativo all’accertamento di conformità dell’organismo accreditato.
 
Par. 5.    L’accertamento dell’organismo preposto alla valutazione di conformità: “criterio specifico” o “condizione costitutiva” dell’E.o.W.?

Par. 6.    Dubbi di legittimità del “criterio” adottato (accertamento del terzo) rispetto ai poteri conferiti alla Commissione, dalla direttiva.  

Par. 7.    Secondo profilo di legittimità: l’accertamento del terzo è estrinseco al perfezionamento dell’attività di recupero cui si riconduce l’E.o.W.
Par. 7.1.  L’obiezione secondo cui la nozione di “recupero completo” risulterebbe abbandonata o comunque superata dalla direttiva 2008 e dal regolamento.

Par. 8.    Natura ed efficacia dell’accertamento del terzo verificatore.   
Par. 8.1. Formazione dell’E.o.W. e successivo intervento dell’organismo di valutazione. Sua non esclusività.
Par. 8.2. Accertamenti (distinti) dell’organismo accreditato, delle P.A. e dell’Autorità giudiziaria. Casistica.
Par. 8.3. Competenza statale “concorrente” in materia ambientale ed “esclusiva”   sui mezzi prova.
Par. 8.4. Conferme fornite dai Regolamenti 765/2008 e 1221/2009.

Par. 9.    L’E.o.W.  con riferimento “all’atto di cessione dal produttore”  al terzo.

 

 

PARTE I

 

1.   I nuovi criteri di E.o.W. per i rottami di ferro, acciaio e alluminio.

         Come è stato già correttamente segnalato, il Regolamento (CE) n. 333/2011 costituisce il primo provvedimento emanato in attuazione dell’art. 6, della Direttiva 2008/98/CE, in tema di End of Waste(1) che, nel disciplinare - per la prima volta - il fenomeno della “cessazione della qualifica di rifiuto”(2) relativo a determinati residui di consumo o produttivi, lo subordina al rispetto di “criteri” tecnici specifici, di competenza della Commissione Europea(3) ed in conformità ad una serie di “condizioni” da rispettare(4).

          Non può sfuggire la rilevanza non solo “tecnica” ma anche “politica” del provvedimento, de quo, che ha introdotto, innovativamente, una disciplina tecnica specifica, volta ad attuare nuove strategie di recupero dei rottami metallici, superando il radicato pregiudizio del “tutto rifiuto”; introducendo procedure corrette e dettagliate sulle operazioni di riciclaggio, recupero e di preparazione al recupero e, conseguentemente, consentendo un risparmio delle materie prime naturali, con la dichiarata finalità di assicurare un recupero “di qualità” che garantisca un prodotto competitivo sul mercato delle materie prime (“for use secondary material instead of primary materials”).    

          Il Consiglio dell’U.E. ha dunque adottato quattro “criteri” per la E.o.W. con riferimento a ”taluni tipi di rottami metallici” (di ferro, acciaio e alluminio, inclusi i rottami di leghe di alluminio: v. art. 1, del Reg. cit.)(5), che impongono:

1.   il rispetto di determinati requisiti di qualità e caratteristiche analitiche sia per i rottami (rifiuti) da recuperare (v. art. 3, lett. a);
2.   sia per quelli “in uscita dal processo di recupero” (v. art. 3, lett. c);
3.   specifiche tecniche e processi di trattamento per le due tipologie di rottami (cfr. art. 3, lett. b) e 4, lett. b) e gli Allegati I e II, dagli stessi richiamati, i quali disciplinano partitamente le categorie di rottami di ferro, acciaio e di alluminio);
4.   nuovi (ulteriori e inediti) obblighi di condotta (o comportamentali), formulati dagli artt. 5 e 6, del Regolamento (cui rinvia la lett. d, degli stessi artt. 3 e 4), consistenti:
    a) in una “dichiarazione di conformità” (ovviamente impegnativa per il recuperatore perché resa sotto la sua responsabilità);
    b) nell’adozione di un sistema della qualità;
    c) nell’acquisizione (e possesso) di un accertamento di conformità da parte di un terzo verificatore accreditato).

         Nello specifico, il recuperatore del rifiuto viene sottoposto, per la prima volta:
-    alla redazione di un documento – la cd. dichiarazione di conformità – attestante la rispondenza ai suddetti “criteri” dei processi di recupero adottati, dei rifiuti trattati e dei rottami ottenuti (cfr. art. 5 e all. III del Reg. cit.);
-    all’obbligo di dotarsi di “un sistema di gestione della qualità atto a dimostrare la conformità ai criteri” di cui sopra (cfr. art. 6, comma 1) mediante una serie di procedimenti documentali (descritti nell’art. 6, comma 2, cit.);
-    all’obbligo di far certificare, con cadenza triennale, da un Ente certificatore all’uopo incaricato (6), la rispondenza del sistema di gestione adottato alle previsioni del Regolamento (v. art. 6, comma 5).

        Tali condizioni, come si legge nel primo comma degli artt. 3 e 4, cit., devono ricorrere contestualmente ai fini della cessazione della qualifica di rifiuto - “all’atto della cessione” del rottame, “dal produttore ad altro detentore”- dovendosi intendere come “produttore”, ai sensi dell’art. 2, lett. d, il soggetto il quale cede rottami “……che, per la prima volta, hanno cessato di essere considerati rifiuti” (quindi la qualifica di produttore potrà ricadere sia su colui che recupera il rifiuto che sul soggetto importatore del rottame recuperato: v. lett. e) dello stesso articolo).

 

2.   Cessazione della qualifica di rifiuto nel caso di mancanza dell’accertamento del verificatore accreditato. Possibile risposta formale.

          In considerazione dell’attualità del problema, intendo esaminare, innanzi tutto, il caso specifico (suggerito dalla recente esperienza italiana) in cui il produttore, nel senso definito dall’art. 2, lett. d), pur rispettando, a partire dal 9 ottobre 2011 (data di prima applicazione del Regolamento), tutte le prescrizioni sopra elencate, compresa l’adozione e applicazione del sistema di “gestione della qualità”, ex art. 6, cit. non abbia ancora ottenuto, benché richiesto ad un ente certificatore, l’accertamento di cui all’art. 6, comma 5 (7).

          Il quesito che si pone, in concreto, è dunque il seguente: nell’ipotesi indicata, può ritenersi sostanzialmente ottemperato il nuovo regime prescrittivo ed, in specie, le disposizioni dell’art. 3, che riconduce la “cessazione della qualifica del rifiuto” al momento in cui siano “soddisfatte tutte le descritte condizioni, sub lett. a) – d)” ?

          Ebbene, da un punto di vista strettamente giuridico–formale, prevedo che la risposta al quesito possa essere, in prima battuta, di segno negativo (nel senso cioè della non ricorrenza delle condizioni di EoW).

          Dando, infatti, applicazione ai criteri interpretativi codificati nelle “Preleggi” al codice civile (art. 12), correttamente utilizzabili anche per una fonte comunitaria(8) – e cioè orientando l’interpretazione della norma (art. 3) secondo il suo dato testuale o letterale (“attribuendole il senso fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse”), in base all’intero sistema normativo voluto dal Regolamento (interpretazione sistematica) e in forza della ratio legislatoris (secondo “ la intenzione del legislatore”) - si potrebbe affermare che il momento cronologico e logico-giuridico di cessazione della qualifica del rifiuto (e di contestuale nascita del prodotto) viene – per la prima volta -correlato dal Reg. – e subordinato - alla circostanza fattuale che “ …. (siano) sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni”, ai sensi del paragrafo 1, del suo art. 3.

          Come risulta dal testo adottato, infatti, le condizioni sono quattro (e non tre) e la quarta, di cui alla lett. d), ricomprende anche il rispetto “delle prescrizioni degli artt. 5 e 6”, nella loro totalità e integralità, senza alcuna esplicita o implicita eccezione e/o deroga (salvo, ovviamente, il superamento di tale primo approccio in via interpretativa: su ciò, v. oltre).

          Invero, la lett. d), operando un rinvio a ciascuna delle previsioni contenute nell’art. 6, ricomprende altresì la disposizione del suo paragrafo 5, che detta:

“Un organismo preposto alla valutazione della conformità - di cui al regolamento (CE) n. 765/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 luglio 2008, che pone norme in materia di accreditamento e vigilanza del mercato per quanto riguarda la commercializzazione dei prodotti, che sia stato riconosciuto a norma di detto regolamento, o qualsiasi altro verificatore ambientale di cui all'articolo 2, paragrafo 20, lettera b), del regolamento (CE) n. 1221/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2009, sull'adesione volontaria delle organizzazioni a un sistema comunitario di ecogestione e audit (EMAS) - si accerta che il sistema di gestione della qualità soddisfi le disposizioni del presente articolo. Tale accertamento è effettuato ogni tre anni”.

          In altri termini, il produttore realizzerebbe le condizioni giuridico - fattuali perché il rifiuto divenga, ex lege “prodotto”, solo al momento in cui abbia rispettato “tutte” le prescrizioni di cui alle lettere a) - d) dell’art. 3 e, in forza dell’evidenziato rinvio della lett. d), anche quelle introdotte dagli artt. 5 e 6 (ivi compresa la condizione del par. 5 dell’art. 6, sull’acquisizione e possesso dell’accertamento di conformità del terzo verificatore accreditato).

          Si tenga conto, in proposito, che la lett. d) dell’art. 3 – con riferimento al possesso dell’accertamento di conformità – non prevede la possibilità di una ottemperanza successiva al 9 ottobre 2011, ex art. 7, rispetto alle altre condizioni (come sarebbe nel caso prospettato), in quanto la cessazione della qualifica del rifiuto si verificherebbe cronologicamente e giuridicamente solo dopo l’avvenuta osservanza di “tutte le condizioni” (fatto salvo il momento, ancora successivo, “dell’atto della cessione  dei rottami dal produttore ad un altro detentore”, ex art. 3, par. 1,  su cui v. infra, par.9).

          Questo spiega perché il legislatore comunitario si sia espresso, sub art. 3, lett. d), coniugando il verbo al passato prossimo: “ il produttore ha rispettato le prescrizioni degli articoli 5 e 6” . In altri termini: solo quando il produttore ha (chiesto e) già acquisito l’accertamento del verificatore accreditato.

          Una riprova della formale correttezza di tale soluzione ermeneutica la si potrebbe riscontrare in quanto previsto dall’Allegato III del Reg. - in ordine al contenuto della “Dichiarazione di conformità” - là dove si impone, al punto 6, dell’art. 5, che “…il produttore di rottami metallici applica un sistema di gestione della qualità conforme all’art. 6…. controllato da un verificatore riconosciuto … oppure da un verificatore indipendente”.

          D’altronde, la ratio della disciplina sembra evidente: il Regolamento non solo pretende che il produttore effettui la “dichiarazione di conformità”, di cui all’art. 5, sotto la sua responsabilità, ma impone che la veridicità/attendibilità della sua attestazione (evidentemente di parte) sia fatta oggetto di una verifica (che si ipotizza) “obiettiva” o “indipendente” derivante da un soggetto terzo: il verificatore accreditato. Donde la previsione, ex All. III,  che “la dichiarazione” faccia riferimento all’accertamento del verificatore. Solo in tal modo risulterebbe soddisfatta la quarta condizione indicata sub d) dell’art. 3.

           Non sembra, in conclusione, potersi sottovalutare le tesi secondo cui l’avvenuto accertamento del sistema di qualità, documentalmente dimostrato, rientri fra le condizioni “costitutive” della cessazione della qualifica di rifiuto.    

Né potrebbe giungersi ad una diversa soluzione nel caso ci si fondasse esclusivamente sulla lettura dell’All. III, punto 7, ai sensi del quale il produttore deve anche dichiarare che “la partita di rottami metallici soddisfa i criteri di cui alle lettere da a) a c) degli artt. 3 e 4” del Regolamento, con esclusione del richiamo alla lett. d).
 
          Se è vero, infatti, che tale punto 7 non richiede che i rottami rispettino anche i criteri di cui alla lettera d) degli artt. 3 e 4 (che impone, tra l’altro, l’adozione del sistema qualità e la sua certificazione), non può ignorarsi che - nell’elencare, nei punti 1-8, i contenuti delle singole dichiarazioni che il produttore deve fare per “autocertificare” di essersi conformato al nuovo Reg. 333/2011 – il legislatore ha scelto di distinguere la dichiarazione inerente i criteri di qualità dei rottami recuperabili e recuperati e del relativo processo di trattamento (indicata a p. 7) da quella relativa al “criterio” afferente il “sistema di gestione qualità” adottato e “controllato” [ex art. 6] indicato a Punto 6.

 

3.   Prima ipotesi di superamento dell’ostacolo costituito dall’omesso accertamento del verificatore: risposta negativa.

          Per evitare gli effetti, certamente onerosi derivanti dalla interpretazione rigorosa formulata nel precedente paragrafo, potrebbe prospettarsi una diversa impostazione del tema secondo cui, in considerazione del contenuto squisitamente tecnico della fonte regolamentare, volta a integrare le condizioni elencate nell’art. 6, della direttiva 2008/98, essa non sarebbe idonea a incidere sulla validità ed efficacia delle autorizzazioni (o iscrizioni) già rilasciate in Italia, in favore delle imprese di recupero, ove non ancora scadute.

          Tali provvedimenti continuerebbero, pertanto, a legittimare l’attività di recupero dei rifiuti metallici, sino alla loro naturale scadenza anche se in epoca successiva al 9 ottobre dell’anno scorso.

          Questa “lettura” potrebbe, se accolta, fondare la seguente affermazione: è possibile per le imprese di recupero dei rottami metallici proseguire, anche dopo la data del 9.10.2011, nella loro attività, sulla base delle autorizzazioni in essere, emanate in conformità al D.M. 5.2.98(9), anche se prive dall’accertamento del verificatore accreditato.

          I rottami verrebbero recuperati nel rispetto delle sole condizioni fissate in autorizzazione (ex art. 208 del TUA) o comunicate all’Autorità (in deroga all’ordinario regime autorizzatorio, ex art. 214 del TUA) nel rispetto del D.M. 5.2.98 e non anche osservando i nuovi criteri dettati dl Reg. 333/2011.

Con l’ulteriore conseguenza che l’assenza della menzionata certificazione e/o addirittura di un sistema di gestione della qualità non inciderebbe sulla qualifica dei rottami recuperati che sarebbero classificabili ancora come prodotti (o materia prima secondaria, secondo la “vecchia” terminologia).

          La esposta prospettazione, però, non può essere accolta in quanto risulta priva di un serio fondamento giuridico, atteso il suo palese contrasto con i principi vigenti in tema di efficacia diretta e vincolante dei regolamenti comunitari, sanciti dal Trattato UE.

          Merita, in proposito, rammentare che, ai sensi dell’art. 288(10) (ex art. 249) del Trattato, il regolamento costituisce un atto vincolante e obbligatorio(11) nei riguardi dei relativi destinatari – Stato, Pubbliche amministrazioni, centrali e locali, enti territoriali, singoli cittadini, imprese, ecc. – i quali sono tenuti a dare ad esso applicazione completa ed integrale, risultando illegittima una sua disapplicazione o una applicazione anche solo parziale(12).

        Ovviamente, non è questa la sede per approfondire il tema delle conseguenze giuridiche derivanti dalla diversità fra la disciplina del Reg. e quella nazionale sul recupero dei rifiuti (ex art. 184 ter T.U.). Detto rapporto, peraltro, non si pone, in concreto, in termini di “incompatibilità” (considerata la sostanziale identità di nozioni fra la “materia prima secondaria” e la “cessazione della qualifica di rifiuto”: su cui v. oltre),  ma di disciplina integrativa e di dettaglio, assai più estesa - quella di matrice comunitaria - rispetto alla  normativa nazionale (che non prevede, per esempio, la gestione di un sistema obbligatorio della qualità).

        La norma comunitaria ad effetto diretto (cioè, nel caso, il Reg.), pur non abrogando, modificando o derogando la norma interna nazionale, diversa o contraria, ne impedisce però la applicazione tanto che il giudice nazionale applicherà direttamente la fonte comunitaria preordinata, non applicando quella interna.

        A sua volta il provvedimento autorizzatorio (con riferimento alle autorizzazioni preesistenti al Reg. e non [ancora] adeguate ad esso) risulterà  viziato in via indiretta e sopravvenuta perché emesso in applicazione di una norma interna, sul recupero ordinario o agevolato, non conforme all’art. 6 del Regolamento. Ma la sua illegittimità sopravvenuta, come è noto, non potrà che essere pronunciata dal giudice amministrativo – se non a seguito di impugnativa – nei termini di legge (scaduti, decorsi gg. 60 dal 9 ottobre dell’anno scorso).

        Ne deriva che le vecchie autorizzazioni, non adeguate al (e dunque in contrasto con il ) diritto comunitario, restano formalmente valide anche se è da prevedere che le Autorità amministrative che le hanno rilasciate, anch’ esse vincolate al rispetto del nuovo Reg., provvederanno ad esercitare il loro potere di autotutela, ricorrendo, a secondo dei casi, agli istituti dell’annullamento d’ufficio o alla revoca o alla revisione, al fine di rimuoverle o di conformarle alle prescrizioni dell’art. 6, Reg.  cit., in adempimento di un dovere di conformazione della loro attività provvedimentale al rispetto della (sopravvenuta) fonte comunitaria ad effetti diretti, ex lege n. 241/1990, s.m.i.

        Non v’è, come risaputo, un automatismo rigido fra illegittimità indiretta dell’atto (in base a norma comunitaria)  e annullamento d’ufficio(13). Ma non sussiste dubbio che, nella fattispecie considerata, una valutazione, in concreto, dell’interesse pubblico alla rimozione dell’autorizzazione concessa non potrà che indurre la P.A. alla rimozione e sostituzione del provvedimento rilasciato, privo dei nuovi “criteri” regolamentari (direttamente vincolanti ed applicabili).

        Fermo restando che lo stesso obbligo grava – autonomamente – sulla impresa che dovrà osservare tutte le condizioni e i criteri dell’art. 6 Reg. se vuole raggiungere lo stato di E.o.W. in esito alla sua attività di recupero.  Per le stesse ragioni, le autorizzazioni prossime alla scadenza o nuove non potranno che adeguarsi, obbligatoriamente, alla nuova fonte comunitaria. Mentre le precedenti, ancora in vigore, dovranno essere modificate per recepire le prescrizioni regolamentari.

        Ne deriva che, alla data del 9.10.2011, allorché il regolamento è divenuto “applicabile” cioè vincolante, ai sensi del suo art. 7, per poter svolgere operazioni di recupero di rottami metallici occorreva (ed occorre):

-   disporre di un titolo autorizzatorio già aggiornato ai nuovi criteri introdotti dal reg. 333/2011 (aggiornamento che poteva e/o potrebbe avvenire più agevolmente inserendo, nelle prescrizioni esistenti, come aggiornate, integrate, sostituite, ecc., una previsione finale che operi anche solo come rinvio materiale o ricettizio allo stesso regolamento)(14);
-   qualora l’Autorità non avesse (o abbia ancora) provveduto all’aggiornamento (con riferimento al diverso regime autorizzatorio: ordinario o semplificato) era doveroso, comunque, per le imprese, rispettare direttamente, a partire dal 9 ottobre scorso, i nuovi criteri per poter accedere al regime di EoW, considerato che l’efficacia diretta e vincolante del regolamento si estende anche ad esse, pur a fronte dell’inerzia, totale o parziale, dell’Autorità amministrativa, investita delle competenze autorizzatorie.   

          In definitiva, il nuovo Regolamento non si sostituisce né fa venir meno la necessità delle autorizzazioni esistenti, ma le presuppone, rivolgendosi ovviamente ad un “produttore” autorizzato al trattamento di recupero dei rottami metallici che assoggetta alle nuove prescrizioni comunitarie.

          Esso postula implicitamente, a partire dalla sua entrata in vigore (il 28. 4. 2011), che le Autorità competenti abbiano sostituito o adeguato i propri provvedimenti alle nuove prescrizioni, prima del 9 ottobre successivo, per non intralciare o ritardare, fra l’altro, il sistema interno e transfrontaliero di commercio dei rottami di ferro, acciaio e alluminio (inclusi i rottami di leghe di alluminio) recuperati(15).     

          In definitiva, dopo il 9 ottobre 2011, non possono più applicarsi “i criteri” di cui al D.M. 5.2.98 e s.m.i., relativi al recupero semplificato dei rottami metallici, in contrasto con i precetti regolamentari, operando sulla base di atti emessi ai sensi di quel decreto (e lo stesso vale per le prescrizioni di autorizzazione, ex art. 208,  nel caso di recupero con procedure ordinarie), per le ragioni di diritto appena esposte ed in conformità all’art. 184-ter, comma 2 del TUA che ha previsto l’operatività del D.M. citato solo fino all’emanazione di specifici criteri per la End of Waste di origine comunitaria (o, in mancanza, fissati da nuovi decreti ministeriali)(16).

          Ove si verificasse la convergenza di alcuni criteri del D.M. ’98 con quelli del Regolamento e i primi fossero più restrittivi, si applicherebbero, comunque, i criteri di quest’ultimo (meno restrittivi), attesa la “primazia” della fonte comunitaria.

        
3.1    Seconda ipotesi di superamento della condizione di omesso accertamento del verificatore: l’autonomia del termine relativo all’accertamento di conformità.

          Si supponga che l’impresa di recupero di rottami metallici (il c.d. produttore) abbia rispettato, alla scadenza del 9.10.2011, tutte le condizioni poste dagli artt. 3) e 4 sub a)-d) – e dunque soddisfi i criteri relativi ai rifiuti utilizzati come materiale oggetto delle operazioni di recupero; quelli sul trattamento di detti materiali, ex lett. b); i criteri relativi ai materiali ottenuti dal recupero dei rifiuti di ferro, acciaio e alluminio, ex lett. c); così come abbia redatto una “dichiarazione di conformità” in base al modello di cui allegato III, ex art. 5; e si sia dotata e applichi un sistema di gestione della qualità, ex art. 6  – salvo a non aver ancora acquisito l’accertamento del sistema di gestione, magari richiesto dal produttore al certificatore, prima della scadenza, per difficoltà, ritardi, ingorghi burocratici, magari inerenti, per es., a quest’ultimo.

          C’è da chiedersi, allora:
a)   se l’assenza di questo accertamento, a decorrere dal 9.10.2011 (ipotizzato, in precedenza, come condizione costitutiva della cessazione della qualifica di rifiuti, in forza della lett. d) dell’art. 3 e art. 4), sia da considerare preclusiva(17) dell’effetto desiderato (mutamento del rifiuto in prodotto) e, prima ancora:
b)   se il termine di applicazione del regolamento, del 9 ottobre dell’anno decorso, risulti espressamente e direttamente indirizzato anche a questo specifico adempimento (accertamento del verificatore).  

          L’interrogativo sub b) impone di esaminare:
-    se la prima certificazione del sistema di gestione di qualità, prescritta dall’art. 6 cit., doveva essere acquisita, con certezza, a partire dal 9.10.2011 (in occasione della prima “applicazione” del regolamento, ex art. 7, paragrafo secondo);
-    o, diversamente, se sia stato previsto – e dunque è possibile individuare, nel testo del provvedimento - uno specifico e/o diverso regime, per tale peculiare “condizione”, che consenta di assegnare a detto obbligo (di accertamento del terzo) una distinta decorrenza, fissa o mobile.
 
          Al riguardo, occorre rilevare, in linea del tutto generale e di principio, il “Considerando” n. 6, del Regolamento ove le problematiche organizzative degli Stati membri, connesse all’esecuzione del nuovo regime, sono espressamente e univocamente evidenziate tanto da avvertire la necessità di sottolineare che:

          “Per consentire agli operatori di conformarsi ai criteri che determinano quando i rottami metallici cessano di essere considerati rifiuti occorre lasciar trascorrere un congruo periodo di tempo prima che il presente regolamento divenga applicabile”.

          Di più: la esigenza di un’applicazione graduale dei nuovi criteri si appalesa, in forma ancora più intensa ove si rifletta - ben oltre l’aspetto organizzativo relativo tanto alle imprese come agli apparati di vigilanza e controllo, pubblici e privati - alle rilevanti novità delle “condizioni” e delle “prescrizioni tecniche” (c.d. “criteri”) introdotte, il cui rispetto ravvicinato e contestuale, avrebbe finito per incidere negativamente sulle attività di recupero in corso.  

          Donde la necessità – percepita, in esordio, dal Regolamento:
 a) di scongiurare il rischio di uno stato di disorientamento, se non di stallo, dell’intero sistema di recupero e riutilizzo di rottami metallici adottato dai singoli Stati membri  e, conseguentemente:

b) di modulare, con cura, i termini di scadenza dei numerosi adempimenti, come risulta chiaro da una prevista distinzione fra “data di entrata in vigore” (il 28.4.2011) e data di applicazione (del 9 ottobre 2011).

          E, per quanto riguarda l’ipotesi in esame:
c) data di applicazione e data di accertamento del verificatore da effettuare “ogni tre anni”, senza specificazione del dies a quo.

          Per quest’ultimo profilo, merita ribadire che, ai sensi dell’art. 6, comma 5, gli organismi/enti certificatori (accreditati, ex reg. n. 765/2011; ex reg. (CE) n. 1221/2009, ecc.), sono tenuti ad accertare “che il sistema di gestione della qualità” soddisfi i criteri fissati dal medesimo disposto e che “tale accertamento deve essere effettuato ogni tre anni”.

          Peraltro né tale disposizione né altre norme regolamentari sono in grado di indicare esplicitamente quale sia il termine di decorrenza iniziale per il calcolo del triennio. Come dire che non viene precisato espressamente dal Regolamento entro quale data debba essere rilasciata la prima certificazione.

          Ebbene, il silenzio del legislatore – che pure avrebbe potuto predisporre un termine fisso per tutti, con decorrenza certa - lascia ragionevolmente spazio per sostenere che la prima certificazione potrebbe intervenire entro il termine massimo di tre anni dalla data di prima applicabilità del Reg.  (e cioè a partire dal 9.10.2011), fermo restando il rispetto delle previsioni delle nuove prescrizioni inserite o meno nelle autorizzazioni, integrate o rinnovate, in conformità al Regolamento, con decorrenza dalla data di applicazione appena indicata.  

          Conforta tale conclusione la considerazione che la fonte comunitaria, del tutto consapevolmente, non ha inteso fissare una data ben precisa per il rilascio della prima certificazione, in quanto ha tenuto conto, alla data della sua redazione, della lunghezza, imprevedibilità e varietà dei tempi effettivamente occorrenti per verificare la conformità della attività di recupero del rifiuto (rottami metallici) a tutte le nuove prescrizioni tecniche e procedure documentali che compongono il “sistema di gestione della qualità”. Cioè, in una battuta: la complessità della messa in atto del successivo controllo, dopo il 9 ottobre 2011(18).  
          Questa stessa complessità del sistema di gestione (non poteva e) non può non incidere evidentemente anche sui tempi di verifica da parte degli Enti certificatori – onde è consequenziale pensare che non si sia voluto “contingentare” i tempi per la “prima certificazione” entro il solo “semestre” intercorrente dall’entrata in vigore (28.4.2011) del regolamento alla data di applicabilità dello stesso (9.10.2011).

          In conclusione, si potrebbe ragionevolmente affermare, per le considerazioni svolte, che, nel primo periodo di applicazione del regolamento, gli operatori, affinché i rottami da loro recuperati possano cessare di essere qualificati rifiuti, dovevano e devono:

-    conformarsi, entro la data del 9.10.2011, a tutte le condizioni di cui all’art. 3 e 4, lett. a) – d);
-    presentare, entro lo stesso termine, richiesta di accertamento presso un Organismo preposto alla valutazione di conformità, ex par. 5 dell’art. 6, dopo aver adottato e applicato un sistema di gestione della qualità (anche se non ancora certificato). Fermo restando l’obbligo di ottenere la prima certificazione nei termini indicati nella autorizzazione rinnovata (v. sopra), e comunque nell’arco dei tre anni dal 9.10.2011.

          La fondatezza di tale tesi non appare neppure scalfita dalla previsione di cui all’allegato III, punto 6, del regolamento, in base alla quale, nella “dichiarazione di conformità” - che accompagna i rottami recuperati - ex art. 5 - l’operatore deve affermare, tra l’altro, di aver adottato un sistema di gestione “controllato da un verificatore”.

          Questa dichiarazione, infatti, nella prima fase applicativa del regolamento, potrebbe integrarsi con una attestazione dell’interessato di aver sottoposto il sistema a verifica (non ancora conclusa), indicando il nome dell’Ente verificatore accreditato al quale ci si è rivolti e gli estremi dell’incarico affidato.  

          Ovvero, congiuntamente o in alternativa, nell’attesa prolungata di ricevere la certificazione richiesta entro il 9 ottobre 2011, il produttore avrebbe la possibilità/facoltà di rivolgersi alle autorità pubbliche, competenti al rilascio delle autorizzazioni e/o alla vigilanza e controllo, per far accertare direttamente, con un atto che assume il valore proprio della certificazione amministrativa, la conformità del “sistema della qualità adottato” alle previsioni del Regolamento, da menzionare in sede di “Dichiarazione di conformità”.

          Si veda, in proposito, l’art. 6, par. 7 del Regolamento, secondo il quale: “Il produttore consente l’accesso al sistema di gestione della qualità alle autorità competenti che lo richiedano” (o a cui egli lo richiede: sull’importanza di tale disposto, ai fini di individuare la natura dei compiti accertativi del verificatore accreditato, v. oltre).  

 

PARTE II

 

4.   Su taluni profili di dubbia legittimità del criterio di individuazione dell’EoW, relativo all’accertamento di conformità dell’organismo accreditato.

    Resta da scrutinare un ultimo profilo, di particolare rilevanza, che attiene alla legittimità stessa delle prescrizioni di cui alla lett. d) degli artt. 3 e 4, Reg. con riferimento all’obbligo di “accertamento” del sistema di gestione della qualità, di cui al par. 5, del successivo art. 6, Reg., da verificare in termini di conformità o meno alla norma “delegante” (art. 6) della direttiva 2008/98 cit.
 
    Ebbene tale “obbligo” – come sottolineato – viene considerato dal regolamento quale condizione “costitutiva” della cessazione della qualifica di rifiuto (dei rottami metallici) ma, a ben vedere, esso non sembra rientrare fra  le “condizioni” previste dall’art. 6, della direttiva, per il perfezionamento di tale cessazione(19), né sembra rispettare l’ambito proprio e circoscritto dei “criteri” di cui al par. 2, dello stesso articolo. 

    Si intende dire che se sussiste una piena corrispondenza fra l’art. 6. direttiva, e gli artt. art. 3 e 4 del Regolamento n. 333/2011, con riferimento alle lettere a, b e c, di quest’ultimi  (e agli Allegati I e II dagli stessi richiamati),(20) che, fra l’altro,  impongono:
1.    la dichiarazione di conformità, di cui all’All. III;
2.    la dotazione di “un sistema di gestione della qualità, anch’esso atto a dimostrare la conformità ai criteri” di cui agli artt. 3 e  4.

    Non può negarsi, invece, l’assoluta novità (oltre che anomalia, sotto il profilo della loro costitutività, ai fini dell’EoW) delle prescrizioni che, ai sensi della lett. d) dei medesimi  disposti,  impongono:
3.     la verifica di un soggetto terzo (un verificatore accreditato) del sistema di gestione della qualità;
4.    il “ritardo” relativo alla formazione del prodotto al momento della “cessione” (v. p. 9).

    Con riferimento all’adempimento sub 3, non sembra dubbio, infatti, come già rilevato, che (anche) esso venga fatto assurgere a condizione decisiva e finale per la ricorrenza dell’EoW (v. retro).

    Ebbene, proprio in ragione di tale costitutività, sembra legittimo chiedersi se, nell’adottare detta previsione (ex lett. d, degli artt. 3 e 4), il Regolamento non si allontani da e/o si contrapponga ad un principio cardine dell’intero sistema normativo  in materia di End of Waste – confermato dalla direttiva 2008/98(21) - in base al quale i rifiuti in generale (compresi i rottami metallici) cessano di essere tali all’atto del completamento delle operazioni di recupero cui sono sottoposti(22) e non anche (come si legge nel par. 1, degli artt. 3 e 4 del Reg. cit.) al momento, necessariamente successivo e con finalità di controllo:
a) dell’accertamento del sistema di gestione della qualità, ex art. 6, par. 5 (richiamato dall’art. 3, lett. d)(23) ovvero:
b) (nonché) nella fase, sempre distinta e posteriore: “… dell’atto di cessione” (del prodotto ottenuto dal recupero) “dal produttore ad un altro detentore”, come indicato (nella frase di esordio) dallo stesso art. 3, paragrafo primo(24) (v. oltre, par. 9).

    Mi chiedo, nello specifico: il  Regolamento, così statuendo, non finisce con l’incidere,  sostanzialmente, sulle “condizioni” della direttiva, da qualificare senz’altro “essenziali” (perché attengono al momento di cessazione della qualifica di rifiuto)? E che, per ciò stesso, erano e sono espressamente (e preventivamente) sottratte alle modifiche della fonte regolamentare attuativa, come risulta, testualmente, dall’art. 6, comma 2, della direttiva stessa, la quale assegna alla “procedura di regolamentazione con controllo” (e dunque al Regolamento in esame) le sole “misure intese a modificare elementi non essenziali della presente direttiva, completandola, che riguardano l’adozione dei criteri di cui al paragrafo 1 e specificano il tipo di rifiuti ai quali si applicano tali criteri?” 
Quest’ultimo interrogativo, per la sua delicatezza, merita un più meditato approfondimento.

    
Par. 5.   L’accertamento dell’organismo preposto alla valutazione di conformità: “criterio specifico” o “condizione costitutiva” dell’EoW?

    Per affrontare correttamente la questione relativa alla legittimità o meno della previsione relativa alla natura “costitutiva” dell’accertamento del verificatore, occorre, innanzitutto,  chiederci:
a)    se l’atto di verifica, da parte di un terzo accreditato, richiesta dall’art. 6, par. 5, del Regolamento, costituisca o meno un “criterio” che rientra nella procedura di  End of Waste;
b)     se lo stesso atto sia stato disciplinato in conformità alle “condizioni” stabilite dall’art. 6, comma 2, della direttiva. In altri termini: se il Regolamento abbia rispettato i confini delimitanti l’ambito del suo intervento (o della potestà attuativa delegatagli secondo la procedura di cui al successivo art. 39, par. 2).

    Sul primo profilo, sub a), osservo che gli artt. 3 e 4 del Regolamento,  rispettivamente a par. 1, lett. d), indicano, tra le “condizioni” che i rottami metallici devono rispettare ai  fini della cessazione della qualifica di rifiuto, anche l’ottemperanza alle prescrizioni di cui agli artt. 5 e 6.

    L’art. 6, come è noto, impone specifici procedimenti  denominati  “gestione della qualità” (in inglese: “Quality Assurance”, ex par. 5), come individuati dai parr. 1- 4), che si concludono con una verifica finale – o audit esterno – diretto ad accertare se  il sistema di gestione della qualità, adottato dal “produttore”,  sia conforme alle disposizioni del menzionato art. 6 (v. anche l’All. III). 

    Se questa è la procedura imposta, ex novo, come non dubitabile, non potrà negarsi che:
- il Reg. intenda annoverare l’accertamento previsto dall’art. 6, par. 5, fra i “criteri” la cui fissazione gli era stata “delegata” dalla direttiva(25); ma che, di fatto:
- esso abbia trasformato questo “criterio” in una vera e propria (nuova e inedita) “condizione” costitutiva, non prevista dalla direttiva, la cui ricorrenza determina l’End of waste, con rilevanti conseguenze pratiche…. (sulla introdotta efficacia costitutiva della verifica del terzo accreditato, v. anche, retro, par. 2).

    Come dire che - per il nuovo Reg. - il rilascio della “valutazione di conformità “ (e il suo possesso da parte del produttore) non rappresenta, come dovrebbe, un momento posteriore ed esterno alle procedure di formazione della “Cessazione della qualifica di rifiuto”, ex art. 6 della Direttiva, ma una condizione “costitutiva” della sua cessazione(26).

    Deve essere, peraltro, chiaro, che, in queste note, non si dubita ovviamente della opportunità, nel merito,  di tale audit esterno o della scelta operata dal Regolamento di rinviare, ai fini di individuare le capacità e la “legittimazione” degli organismi verificatori esterni, al regolamento (CE) n. 765/2008 o ai verificatori ambientali di cui all’art. 2, par. 20 lettera b) del regolamento (CE) n. 1221/2009 (EMAS).

    Si intende, invece, prospettare e verificare: 
1) se sia legittimo che il Regolamento abbia configurato tale requisito (rilascio e disponibilità dell’accertamento del terzo verificatore) come adempimento costitutivo della cessazione della qualifica di rifiuto, con riferimento e nel rispetto dei poteri conferitigli  dalla direttiva;  
2) se risulti conforme ai principi comunitari (e nazionali) sul recupero dei rifiuti riportare la fase finale di perfezionamento della “cessazione della qualifica di rifiuto“ al momento dell’accertamento dell’organismo accreditato per la verifica di conformità;
3) quale efficacia giuridica e finalità riveste l’accertamento di quest’ultimo sotto  il  profilo dei requisiti soggettivi degli organismi accreditati   e oggettivi,  ai fini di individuare la portata ed efficacia della verifica di conformità (in relazione alla sua vera natura di  fonte di prova, dotata di una sua propria attendibilità). 

    Per tale ultimo profilo, ci si dovrà anche domandare se l’accertamento del terzo accreditato sia l’unico mezzo di prova, possibile e consentito, per dimostrare che l’attività di recupero, tramite l’applicazione di un sistema di gestione della qualità, abbia perfezionato le procedure di EoW, tanto da dover essere considerato come  “costitutivo” di tale cessazione ovvero siano consentite altre forme di dimostrazione (cioè distinti mezzi di prova) dell’avvenuta applicazione delle disposizioni sulla gestione della qualità, nel rispetto dell’art. 6 cit., ai fini della qualificazione del materiale recuperato come “prodotto”.

    Prima, però, di esaminare i temi indicati, al fine di dare maggiore concretezza alle questioni sollevate, merita segnalare che, in occasione della scadenza del termine del 9 ottobre 2011, molte società italiane di recupero, pur avendo soddisfatto tutti i criteri introdotti dal Regolamento (comprese la Dichiarazione di conformità, l’applicazione di un sistema i gestione della qualità  e la richiesta di verifica ad un ente accreditato), per le ragioni più varie, non avevano ancora ricevuto (e dunque non erano in possesso) dell’accertamento dell’organismo preposto alla valutazione della conformità, di cui al par. 5, dell’art. 6.

    Ebbene secondo l’interpretazione (qui criticata) - della costitutività di tale “condizione”(27) – delle società non avrebbero potuto ancora “considerare” il loro rifiuto come prodotto, in quanto non avevano, per l’appunto,  soddisfatto “il criterio” sub art. 6, par. 5, Reg., relativo alla verifica del terzo.
   

Par. 6.   Dubbi di legittimità  del “criterio” adottato (accertamento del terzo) rispetto ai poteri conferiti alla Commissione, dalla direttiva 2008/98/CE. 

    A questo punto dell’indagine, si impone di esaminare non solo il contenuto di tali “criteri” ma se essi rispettino, come premesso, a par. precedente, sub 1), in fondo, gli ambiti – e relativi limiti -  imposti dalla direttiva stessa.

    Sotto tale ultimo profilo (dei limiti di “delega”) - rilevante ai fini della legittimità delle prescrizioni tecniche regolamentari(28) - merita rimarcare, ancora una volta, che i “criteri” del par. 2 dell’art. 6, della direttiva (successivamente posti dall’art. 3 e 4 del Reg.) possono completare/modificare “gli elementi non essenziali” della  Direttiva, ma non “modificarne elementi essenziali”.

    Orbene, a me sembra che - nel momento in cui il Reg. (con gli artt. art. 3 e 4) introduce,  come elemento costitutivo della cessazione della qualifica di rifiuto, ex par. 5, dell’art. 6, (l’acquisizione di) un accertamento, da parte di un ente accreditato, ai sensi del Reg. (CE) 765/1998, volto a verificare se il sistema di gestione della qualità soddisfi le disposizioni dell’art. 6 (richiamato dalla lett. d), degli artt. 3 e 4 - esso aggiunga indebitamente una “condizione” essenziale sull’EoW, in quanto  costitutiva di tale cessazione, non presente nella fonte primaria (e quindi non di sua competenza).

    Tale iniziativa – infatti - si pone in contrasto con l’art. 6, della direttiva, la quale individua – essa e sola essa – le “condizioni” di tale cessazione, limitando e restringendo l’intervento del Reg. al solo compito di adottare “i criteri” attuativi di cui a parr. 1 e 2 dell’art. 6, con cui modificare e/o completare “gli elementi non essenziali” della stessa”.

    In altri termini, la direttiva (art.6) non richiede come “condizione” della cessazione della qualifica del rifiuto anche l’accertamento del sistema di gestione, mentre il Regolamento, con i suoi “criteri”  – dopo aver introdotto correttamente le prescrizioni sulla “Dichiarazione di conformità” (ex art. 5) e di applicazione di un sistema di “Gestione della qualità” (ex art. 6)(29) – aggiunge, del tutto opportunamente, detto “accertamento” del terzo ma, a mio avviso, lo fa assurgere, indebitamente, per come è stato configurato nel meccanismo  di rinvio degli artt. 3 e 4, lett. d), a “condizione” costitutiva del momento – cronologico e giuridico - di cessazione della qualifica di rifiuto (E.o.W.)(30). 

    In tal modo trasformando un “criterio” tecnico e procedimentale, che era abilitato ad introdurre, al fine di verificare il rispetto della gestione della qualità,  in una “condizione” finale costitutiva dell’ EoW (che fuoriusciva dalla sua competenza, ex par. 2, dell’art. 6, direttiva cit.).

    Ovviamente, anche i criteri regolamentari che ineriscono a “condizioni costitutive” della direttiva, integrandola e o specificandola, sono “costitutivi”. Ma non quei “criteri” che, non essendo riconducibili a tali “condizioni” (costitutive, afferenti, come si dirà, le operazioni di recupero e la loro conclusione: v., infra) non rivestono tale efficacia e ne creano essi stessi di nuove.

    Non v’è dubbio, infatti, che “l’accertamento del terzo” costituisca parte integrante dei “criteri” di EoW – come la Dichiarazione di conformità, la gestione della qualità e le prescrizione degli ALLEGATI -  ma, nel momento in cui esso è riportato dal Reg. all’interno “.. dei criteri specifici da elaborare conformemente alle seguenti condizioni” dell’art. 6, par. 1 della direttiva, esso viene investito di una funzione propria delle “condizioni” costitutive che non gli può appartenere.

    A tale conclusione induce anche la distinta ratio (o finalità) delle disposizioni esaminate. Sul piano giuridico generale, tanto nell’ordinamento comunitario che in quello interno, non può confondersi – infatti - “il momento di cessazione del rifiuto” (per l’avvenuto completamento delle operazioni di recupero, secondo un sistema di gestione della qualità, ecc., che soddisfi le condizioni di cui alle lett. a-d) del par. 1, dell’art. 6, della direttiva), con il momento, necessariamente successivo e distinto, secondo canoni cronologici, logici e giuridici, dell’accertamento – con funzione di verifica (della gestione) e di prova - fornita dal terzo verificatore.

    Accertamento che non cade, fra l’altro, sull’avvenuta cessazione, in concreto, dei rifiuti metallici trattati, di volta in volta dal produttore, quanto sulla “…applicazione, da parte di quest’ultimo,  di un sistema di gestione della qualità“, atto a dimostrare che detto sistema “soddisfi”, per come è stato predisposto,  le disposizioni del presente articolo” (ex par. 5, dell’art. 6).

    Trattasi, dunque, di una verifica di natura tecnica e  documentale sulle modalità di trattamento del rifiuto, la cui attendibilità, nel merito, dipende non solo e non tanto dalla scelta del verificatore, da parte del controllato (che lo compenserà per la sua prestazione professionale), quanto, soprattutto, dalla prevista periodicità del suo intervento (“tale accertamento è effettuato ogni…. tre anni”, ex art. 6, par. 5, Reg. cit.), secondo una scadenza dai termini assai dilatati. 
 
    Si ribadisce: la “Gestione della qualità” non è certo fase distinta o successiva ai “criteri” di determinazione dell’EoW, perché inerisce alle modalità di recupero del rifiuto metallico. Lo è invece l’attività di accertamento e di verifica successiva del certificatore accreditato, che segue a quella del produttore, ex art. 5, Reg. (con la Dichiarazione di conformità) e si colloca in una fase del “procedimento” in cui il rifiuto è stato già trattato, secondo un sistema di gestione della qualità, ed è divenuto (già) prodotto (o è rimasto ancora rifiuto).  

    Anche a ritenere che il “criterio” relativo al sistema di gestione della qualità si articola e/o compone di un secondo elemento, pertinente la fase di accertamento del terzo (audit esterno)  e che tale fase sia resa obbligatoria  (e pertanto sanzionata o sanzionabile, se non rispettata: con autonoma sanzione statale o, per es., in quanto richiamata da una prescrizione di autorizzazione, ex art. 256, comma 4, del T.U. ambientale), resta fermo, sul terreno dei principi giuridici, comunitari e nazionali, che tale verifica esterna, anche se obbligatoria, non può essere qualificata “costitutiva”  del momento di cessazione del rifiuto e pertanto, in forza della sua costitutività, “infungibile”.

    Con l’ulteriore conseguenza pratica che potrebbe essere ritenuta  non sostituibile con altri mezzi di prova  e/o con  altre forme di accertamento, fornite dal privato interessato (per es.: con una perizia giurata) ovvero acquisite in sede  amministrativa e/o giurisdizionale (su ciò vedi oltre).

    Sotto tale ultimo profilo ho motivo di ritenere che il Reg. introduca surrettiziamente, ed ex novo,  una “condizione” costitutiva (e non un “criterio”),  aggiuntiva a quelle della direttiva, configurata pertanto come “essenziale”, perché ricondotta forzatamente al momento di EoW.

    Tali “condizioni”, invece, come già sottolineato sopra, erano e sono espressamente (e preventivamente) sottratte alla fonte regolamentare, investita di funzioni di natura attuativa, come impone l’art. 6, comma 2, della direttiva stessa, la quale affida alla “procedura di regolamentazione con controllo” (e dunque alla fonte in oggetto) le sole “misure intese a modificare elementi non essenziali della presente direttiva, completandola…” (in altri termini: “… l’adozione dei criteri di cui al paragrafo 1” e la specificazione “.. del tipo di rifiuti ai quali si applicano tali criteri”, come già rilevato, retro, a par. 4).

    In questa prospettiva, sembra utile richiamare il pensiero di un recente Autore(31) che, esaminando il rapporto fra atto delegante (direttiva) e atto delegato (regolamento di esecuzione/attuazione) – nel cui ambito si colloca il problema della legittimità dell’atto delegato -  in ipotesi di allontanamento o inosservanza dei principi (“condizioni”) del provvedimento di delega (la direttiva), osserva: “ Sotto i profili della tecnica legislativa, l’art. 6 costituisce una sorta di “delega”; la norma si limita essenzialmente a stabilire “i paletti” (cosi dette “condizioni”) da rispettare nell’elaborare specificamente, per ciascun flusso di rifiuti che si candida all’EoW, “i criteri specifici” che questo deve soddisfare  per poter uscire dal novero dei rifiuti”. 

    Peraltro, dopo tale corretta premessa, non ci si pone la questione, di cui si discute in questa sede, sull’avvenuto rispetto delle “condizioni” di delega (poste dalla direttiva) da parte della norma regolamentare (in relazione al combinato disposto degli art. 3 e 4, lett. d) e  par. 5 dell’art. 6, introduttiva della natura “costitutiva” dell’accertamento del terzo verificatore accreditato).

    Anzi lo stesso Autore prospetta la possibilità che, in esito alla “…. attività di legislazione della Commissione europea, in tema di EoW, non è possibile escludere a priori che la realizzazione della procedura di EoW possa arrivare al punto di apportare integrazioni sostanziali al meccanismo previsto dall’art. 6, così da creare una fonte secondaria del diritto, autonoma rispetto allo stesso art. 6, direttiva 2006/98/CE…”(32). 

In conclusione, il Reg. non rispettando le condizioni (4) della direttiva - con riferimento al momento di formazione dell’EoW – ha esorbitato dai poteri concessigli dalla delega, risultando, in tal modo, affetto di invalidità per mancata osservanza delle procedure previste dall’art. 39, direttiva, che rinvia all’applicazione dell’art. 5 bis, par. 1-4 della decisione 1999/468/CE (il quale fissa, fra l’altro, i limiti, alle “competenze di esecuzione” – con riferimento “all’atto di base [direttiva], ai suoi fini, al suo contenuto, ai principi di sussidiarietà o proporzionalità”).


Par. 7.   Secondo profilo di legittimità: l’accertamento del terzo è estrinseco al perfezionamento dell’attività di recupero cui si riconduce l’EoW. 

    Esaminando, a questo punto, il profilo indicato, retro, sub 2), di par. 5, in fondo, ritengo di poter confermare che - in forza dei principi comunitari e nazionali sul recupero dei rifiuti, posti da ultimo, dall’art. 6, della direttiva (il cui contenuto si arricchisce e chiarisce con le definizioni di “recupero” introdotte dall’art. 3, punti 13/17, sul riutilizzo, trattamento, preparazione per il riutilizzo, riciclaggio) - il fatto costitutivo dell’EoW sia ancora da correlare al completamento dell’attività di trattamento(33) e non già  ad un atto estrinseco e successivo di accertamento dell’avvenuto trattamento(34) (che servirà ovviamente a dimostrare l’avvenuto trattamento e il suo esito di EoW). 

    Tale conclusione mi sembra derivare dalla non sempre agevole ricognizione di una ampia e risalente normativa comunitaria e interna, come ricostruita da una elaborazione giurisprudenziale spesso incoerente quando non ripetitiva – oltre che dagli indirizzi delle istituzioni comunitarie – che sostanzialmente convergono nell’indicare l’attività di recupero “pieno” come momento di trasformazione del rifiuto in prodotto, senza assimilare o confondere tali operazioni (di trattamento) con una attività esterna e successiva di accertamento (di un soggetto privato), o, addirittura, di “cessione” a terzi del materiale recuperato (come indica, oggi, inopinatamente….,  l’art. 3, par. 1 e l’art. 6, par. 5, il Reg. cit.).

    Per la giurisprudenza dell’U.E., sembra sufficiente evocare la nota sentenza ARCO, del 15.6.2000 della Corte di Giustizia, in  Causa C - 419/97, che  affermava un principio cardine, ai fini della definizione/individuazione della  “cessazione della qualifica di rifiuto”, specificando che: “a) il recupero del rifiuto è una trasformazione integrale e completa del residuo e che, per l’effetto del trattamento subito, perde, ordinariamente, la qualifica di rifiuto…”(35). 

    Successivamente – e analogamente - tale principio è stato ribadito con la sentenza del 19.6.2003 C-444/00 Mayer Parry, nella quale la Corte di Giustizia ha  sottolineato che, ai fini della qualifica come rifiuto o merce di uno specifico residuo-scarto (rifiuto di imballaggi) sottoposto a recupero (nella specie, ad operazioni di riciclaggio), doveva porsi l’attenzione - non solo sull’effettiva volontà del detentore (per verificare se quest’ultimo intendesse “disfarsi” o meno di quel dato materiale), ma soprattutto sul completamento del processo di recupero.

    Si legge infatti, in detta pronuncia che “… il ritrattamento dei rifiuti di imballaggio deve consentire di ottenere un materiale nuovo o un prodotto nuovo, dalle caratteristiche paragonabili a quelle del materiale da cui derivano, che assicura un elevato livello di tutela dell'ambiente. Infatti, è solo in questa fase che si realizzano pienamente i benefici per l'ambiente in ragione dei quali il legislatore comunitario ha accordato una certa preferenza a tale modalità di recupero dei rifiuti, vale a dire una riduzione del consumo di energia e di materie prime (v. undicesimo 'considerando' della direttiva 94/62). Inoltre,è ancora solo in questa fase che  i materiali in questione cessano di essere qualificati come rifiuti di imballaggio e che, pertanto, i vari controlli sui rifiuti previsti dal legislatore comunitario perdono la loro ragion d'essere. Infatti, poiché il riciclaggio comporta la trasformazione dei rifiuti di imballaggio in un materiale nuovo o in un prodotto nuovo, dalle caratteristiche paragonabili a quelle del materiale di provenienza, il risultato di tale trasformazione non può più essere considerato «rifiuti di imballaggio»”(36).

    In linea con tale orientamento (confermato anche da successive pronunce), il legislatore nazionale, con il previgente art. 181 bis, aveva prescritto che i rifiuti, per divenire materia prima secondaria, dovevano rispettare una serie di condizioni fra cui quella primaria e decisiva che essi:
“a) siano prodotti da un'operazione di riutilizzo, di riciclo o di recupero di rifiuti”.

    Analogamente l’art. 184-ter, come ricordato, individua il momento, in termini cronologici,  e la ragione e la causa di cessazione della qualifica di rifiuto: “…. quando è stato sottoposto ad una operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione del per il riutilizzo  e soddisfi i criteri specifici da adottare nel rispetto delle seguenti condizioni…”(37). 

    Con riferimento a detti ultimi “criteri” è corretto postulare la “tipicità delle operazioni di recupero”(38) nel senso, cioè, che ciascuna tipologia di rifiuti dovrà essere “recuperata” in conformità ai criteri specifici posti in sede comunitaria (come nel caso del Reg. adottato per il recupero del “materiale metallico”(39)) ovvero, in mancanza, a quelli adottati in sede nazionale (v. l’art. 184 ter, comma 3). 

    Ma postulare la “tipicità” delle operazioni di recupero non significa svalutare la perdurante loro funzione – decisiva e costitutiva – ai fini della individuazione della nozione giuridica di “cessazione della qualifica di rifiuto”.

    In questo senso Il criterio del “completamento delle operazioni di recupero” appare ancora decisivo sia:
a) in considerazione della attuale mancanza - che si protrarrà per lungo  tempo - dei “criteri” comunitari, per la più parte della tipologia di rifiuti recuperabili (in attesa degli adottandi “criteri” regolamentari); sia:
b) in difetto (ancora e per quanto tempo?) dei decreti ministeriali che possono, allo stato, anticipare “i criteri” dell’U.E, , ex. art. 184–ter, comma 2;  sia, infine:
c) con riferimento “….alle nuove autorizzazioni regionali al recupero non semplificato e tipizzato con produzione di m.p.s. diverse da quelle previste dalle norme tecniche”(40), ai sensi dell’art. 9–bis, d.l. 172/2008, richiamato in vita dall’art. 184 – ter, comma 3.

    In conformità alla norma comunitaria e nazionale, anche la giurisprudenza della  Cassazione, da tempo e, da ultimo, in applicazione del suddetto art. 181 bis, ha avuto modo, più volte, di chiarire che, ai fini del passaggio da rifiuto a non rifiuto, ciò che rileva è che, siano state definitivamente completate le operazioni di recupero.

    Al riguardo si vedano, in modo esplicito, tra le tante,  le pronunce di  Cass. 21 marzo 2006, Poggi; Cass. 15 maggio 2006 Barbati; Cass. 9 ottobre 2007, Cogoni,  le quali fanno giustamente “retroagire” la formazione delle m. p. s. al completamento delle operazioni di recupero,  coincidente con “.. il momento in cui non occorrono successive trasformazioni per il successivo uso” (fase cronologica  ben distinta,  nel tempo e  nello spazio, oltre che sul piano tecnologico, dal momento in cui la “materia prima secondaria” viene effettivamente utilizzata, anche da terzi, in un distinto processo produttivo per realizzare un prodotto finito)(41). 

    In definitiva, a mio avviso, non può negarsi che le “condizioni” poste dall’art. 6 della direttiva rivestano il carattere costitutivo dell’.E.o.W(42) e che la cessazione del rifiuto sia segnata dal completamento delle operazioni di recupero (nella nozione allargata dell’art. 3, p. 15)(43) da svolgere, necessariamente,  secondo i criteri  degli artt. 3 e 4 (e relativi allegati) del Reg.

    Il quale, peraltro, indebitamente (per il mancato rispetto delle “condizioni” della direttiva), ha ricompreso, come momento costitutivo, anche il successivo (rispetto al recupero) intervento di controllo dell’organismo accreditato, ex par. 5, dell’art. 6, che è stato fatto assurgere, in tal modo, a elemento costitutivo dell’E.o.W.(44), riportando – poi – la nascita del “prodotto” (m.p.s.) al momento della “cessione” dal produttore ad altro detentore, in tal modo dilatando, erroneamente e illegittimamente, la nozione di rifiuto, la cui individuazione era ed è di competenza della direttiva 2008/98 (ed era comunque estranea alla delega ricevuta).


7.1.   L’obiezione secondo cui la nozione di “recupero completo” risulterebbe abbandonata o comunque superata dalla direttiva 2008 e dal regolamento.

    La ricostruzione offerta dell’attuale sistema di recupero del rifiuto, che connette l’E.o.W. al completamento delle operazioni di recupero (in  inglese: “completed final recovery opereration”) – potrebbe essere confutata ritenendo che l’attività di trattamento completo, tradizionalmente ricevuta, risulterebbe oramai abbandonata e non più invocabile nel nuovo sistema normativo.  Essa pertanto non sarebbe utilizzabile, come nella presente nota, come criterio qualificante della nozione di E.o.W., anche in considerazione della sua origine soprattutto giurisprudenziale.

    L’obiezione non sembra convincente.  
    Pur con qualche approssimazione normativa – cui per l’appunto ha prestato rimedio la giurisprudenza della Corte di giustizia e delle Corti nazionali, peraltro con non molta coerenza(45) - la categoria giuridica di “recupero” del rifiuto ha registrato, in diritto positivo, una notevole continuità ai fini della  individuazione e giustificazione della categoria delle “materia prime secondarie”.

    Basti ritornare con la mente, soprattutto per chi è propenso ad esaltare le innovazioni dell’attualità… dimenticando il passato, prossimo e remoto,  che l’art. 3, par. 1, lett. b), (i) della direttiva 1991/156/CEE,  disciplinava  “il recupero” definendolo in questi termini:
“il recupero dei rifiuti mediante riciclo, reimpiego, riutilizzo o ogni altra azione intesa ad ottenere materie prime secondarie”.

    La normativa del tempo richiamava poi l’Allegato II B che elencava le operazioni di recupero, in via esemplificativa, “ come sono effettuate in pratica”.  Ebbene, sin dal 1991, erano dunque decisive: 1) le categorie giuridiche indicate (recupero, riciclo, ecc.); 2) gli effetti che producevano le relative attività di recupero (trasformazione del rifiuto in m. p. s.); 3) la molteplicità, presente e futura, delle attività di recupero, che venivano esemplificate in appositi Allegati.

    Quindici anni dopo…., l’art. 3, par- 1, lett. b) (i) della successiva direttiva 2006/12/CE, relativa ai rifiuti, ripeteva e dunque confermava l’identica formulazione, riportata sopra, e aggiungeva un Allegato II B che, confermando quello precedente, lo ampliava, sempre in via esemplificativa, introducendo nuove attività di recupero (R1/R13). Anche per l’elencazione delle attività non possono che richiamarsi le precedenti considerazioni.

    Nella nuova direttiva 2008/98CE, si ribadisce, sul piano testuale e concettuale, il ruolo centrale della nozione di “recupero” (art. 3, par. 1, p. 15; art. 6) e di “riciclaggio” (art.3, p. 17), al fine di trasformare il rifiuto in “prodotto, materiali o sostanze”, secondo il nuovo lessico che però esprime, nella sostanza, la precedente, identica nozione di “materia prima secondaria”, anche perché non si allontana dal fenomeno sostanziale sottostante: recupero/riciclaggio che generano prodotto (m.p.s.)(46).

    Che si tratti di un restyling lessicale è confermato, poi, dalla circostanza che le operazioni di recupero (sempre esemplificativamente descritte) che generano il prodotto (non più le m.p.s., secondo la tesi confutata) restano le stesse!

    In proposito, basta rileggere l’All. II, della nuova direttiva del 2008 per accorgersi che essa indica le medesime “OPERAZIONI DI RECUPERO” (RI/R13), “come avvengono nella pratica” (salvo qualche ritocco o chiarimento in nota), con un'unica differenza: che la precedente direttiva 2006/12/CE correlava - allo svolgimento di dette attività di recupero - la fine del rifiuto (attuale EoW) cioè, appunto, la nascita delle  “materie prime secondarie”, ex art. 3, par.1, lett. b) (i).

    In definitiva, l’unica apparente novità – nell’identità delle operazioni di recupero – resta la vicenda della “preparazione per il riutilizzo” (v. art. 3, par. 1, p. 16 e p. 13). La quale, però, non può essere letta come una evenienza affatto nuova (unitamente alla connessa nozione giuridica) che superi e/o cancelli la categoria del recupero – ben radicato nella normativa comunitaria passata e presente, come chiarito sopra – ma come una nuova forma (species) espressamente enucleata di “trattamento” (genus) a fini recuperatori (oltre che di smaltimento: v. l’art. 3, p. 14, secondo cui “il trattamento” comprende “le operazioni di recupero o di smaltimento, inclusa la preparazione prima del recupero o dello smaltimento”). 

    In questi casi (preparazione per il riutilizzo), il “recupero”, eccezionalmente, non è “completo” (nel senso che conferisca al rifiuto nuove caratteristiche merceologiche e di qualità ambientali, che esso non possedeva). Ma la previsione probabilmente si spiega considerando che, in questa specifica vicenda, il materiale da “preparare” - che necessita di solo “controllo, pulizia o riparazione” – altro non è (o non sarebbe) che “una materia prima secondaria  fin dall’origine”(47) ovvero  prodotti o componenti di prodotti, “disfatti” (cioè divenuti rifiuti), benché in buono stato, che risulti conveniente recuperare (cioè semplicemente controllare, pulire o, al massimo, riparare), per esitarli nuovamente sul mercato.
 
    In conclusione, le categorie giuridiche di “trattamento”, preliminare o completo, o di “recupero” preliminare o completo, lungi dall’essere superate o dimenticate mi sembra che godano ottima salute.

    D’altra parte anche l’impianto stesso, oltre che il lessico della direttiva del 2008, portano a questa soluzione.

    Di “recupero” parlano i “considerando” della direttiva 2008 (v. considerando n. 22, ultima proposizione dell’ultimo alinea: Per la cessazione della qualifica di rifiuto, l’operazione di recupero può consistere);  l’art. 6, sopra commentato; l’Allegato II, sulle “Operazioni di recupero” (operazioni, come notato, che si identificano con quelle della precedente direttiva del 2006, la quale riprendeva, a sua volta, le attività di recupero della direttiva del 1991, salvo qualche integrazione); l’art. 15, comma 2 dove, in materia di “gestione dei rifiuti”, il nuovo legislatore comunitario distingue “i trattamenti  preliminari” da “una operazione completa di recupero o smaltimento”.

    E che non si tratti di una svista (quella dell’art. 15), come qualcuno ha frettolosamente ventilato, si desume, in modo univoco e generalizzato, dalla nota introdotta dalla direttiva ad esplicitazione ed estensione della voce R12, dell’Allegato II (Operazioni di recupero) ove si specifica che “ In mancanza di un codice R appropriato”, (detta voce R12) “può comprendere le operazioni preliminari precedenti al recupero, incluso il pretrattamento come, tra l’altro, la cernita, la frammentazione, la compattazione, la pellettizzazione, ecc.”   

    Con tale previsione, di portata generale, si dispone di ricorrere alla voce R12  non solo nel caso contemplato – di “ scambio di rifiuti per sottoporli ad una delle operazioni indicate da R1 a R11” - ma anche per ricomprendere e individuare, in via generale,  “tutte le operazioni preliminari precedenti al recupero”, inclusi specifici “pre-trattamenti”.

    In definitiva, la nuova disciplina comunitaria, nel regolare l’attività di recupero  dei rifiuti - al fine di raggiungere l’E.o.W. (cioè la creazione, dal rifiuto, di un prodotto, tramite trattamento;  prodotto che, essendo ricavato dai rifiuti e non da “materia prima”, era stato correttamente chiamato, sino a ieri, “materia prima secondaria(48)” e comunque sottoposta al regime dei prodotti) - continua a servirsi di una terminologia e di un sistema di principi giuridici nel cui ambito giocano un ruolo ancora essenziale le categorie giuridiche di “recupero”, “trattamento”, “pretrattamento”, “operazioni preliminari al recupero”, come riportate nella normativa, sopra rassegnata (costituente il diritto positivo vigente).

    Queste stesse nozioni giuridiche consentono pertanto di individuare – sul piano cronologico e di sistema - il momento di passaggio dallo stato di rifiuto a quello di prodotto (materia prima secondaria) grazie ad operazioni di recupero (ovvero di riciclaggio o preparazione per il riutilizzo).

    In tal senso, dette categorie vengono contrapposte, sul piano semantico, dalla stessa direttiva, alle operazioni di “pretrattamento” ovvero di “recupero preliminare” che, anche secondo la precedente e consolidata giurisprudenza comunitaria, non erano idonee a trasformare il rifiuto in m.p.s.; cioè, nel nuovo lessico, non determinano “la cessazione della qualifica del rifiuto”, ex art. 6 della direttiva (come trasposta nell’art. 184- ter T.U.A.)(49).  

    In conclusione, secondo l’art. 6 della direttiva, il rifiuto cessa di essere tale quando venga “sottoposto ad una operazione di recupero” che - secondo quanto evidenzia la stessa direttiva ed il suo Allegato 2 -  non potendosi risolvere in semplici “pretrattamenti” o in “in operazioni preliminari precedenti  il recupero” - dovrà essere (e potrà essere ancora definito), per distinzione/contrapposizione  “un recupero completo”. 

Mi domando: non era questo l’insegnamento della CGCE? Dove sarebbe, allora, la novità sostanziale o definitoria dell’art. 3, p. 15 della direttiva 2008/98, che “rivoluzionerebbe” il sistema normativo preesistente?(50).

 
8.   Natura ed efficacia dell’accertamento del terzo verificatore.  

    Con riferimento al punto 3 di par. 5, in fondo (sulla natura ed efficacia della valutazione del verificatore), merita evidenziare, in esordio, che lo stesso tenore letterale della norma regolamentare (“L’organismo preposto alla valutazione di conformità ….si accerta che il sistema di gestione soddisfi le disposizioni del presente articolo”, ex par. 5, dell’art. 6) conferma che tale verifica funge da autorevole prova del rispetto dei “criteri” menzionati, e, in quanto prova, è destinata, in linea di principio, nel sistema giuridico interno e comunitario, ad essere fungibile (o sostituibile) con altri mezzi di prova, di diversa natura, equipollenti o anche di maggiore efficacia, salvo diposizione espressa contraria, in casi eccezionali legislativamente individuati.

    In quanto mezzo di prova (sulla conformità del sistema della  gestione della qualità, adottato caso per caso) – e pertanto espressione di una valutazione tecnica di natura dichiarativa - non dovrebbe comunque essere ritenuta idonea ad assurgere ad elemento costitutivo della (nozione giuridica di) “cessazione della qualifica di rifiuto” e del momento di perfezionamento della stessa (che, secondo il sistema vigente, va ricondotta invece alla fase di completamento delle operazioni di recupero, incluso il riciclaggio, e la preparazione per il riutilizzo, ex art. 6 della direttiva, ai sensi l’art. 184-ter del T.U.A., come chiarito sopra: v. par. 7).
 
    Se le considerazioni che precedono sono da ritenere corrette, ne deriva che, in tutti i casi in cui il produttore non sia in grado di disporre (ed esibire) l’accertamento del terzo verificatore accreditato – per i motivi più disparati (non ancora rilasciato o non rinnovato; smarrito; non in suo possesso all’atto dell’accertamento amministrativo o di p.g.; non richiesto, ecc.) esso potrà comunque dimostrare (cioè fornire la prova) di aver ugualmente rispettato i “criteri” introdotti dal Reg., e soprattutto quello di “applicazione di un sistema di gestione della qualità” ex art. 6 (con cui ha trasformato il rifiuto in prodotto, tramite operazioni di recupero), con altri mezzi di prova, anche più efficaci, come una certificazione amministrativa rilasciata da ente pubblico (di ASL, ARPA, ecc.), ovvero con una perizia giurata di professionista iscritto in appositi albi pubblici, ovvero tramite un atto di accertamento giudiziale, ecc.

    Vale a dire con forme/modalità di accertamento – aventi lo stesso oggetto (sistema di gestione della qualità conforme alle “condizioni” dell’art. 6, Reg.) - il cui valore probatorio risulta, sotto il profilo tecnico e dell’attendibilità (valutata secondo l’ordinamento interno, connotato da una normativa a doppio regime: a diritto privato [o comune] e a diritto amministrativo(51)) assai più stringente (vincolante) ed attendibile rispetto all’accertamento di un verificatore accreditato (auditor esterno). Il quale, come accennato, viene comunque scelto, incaricato e retribuito – come organismo privato - dallo stesso “produttore”, nella sua incontestabile veste di soggetto “controllato”.


8.1.   Formazione dell’E.o.W. e successivo intervento dell’organismo di valutazione. Sua non esclusività.

    In tal approccio ricostruttivo, non varrebbe obiettare per es. che l’accertamento richiesto dall’art. 6, par. 5, costituisce parte integrante di un concetto unitario che si potrebbe definire ‘criterio end-of-waste’ - gestione della qualità(52). 

    Non v’è dubbio, infatti, che, sul rilievo che detto accertamento costituisca “criterio” funzionale alla verifica dell’EoW ma, da un punto di vista fenomenico e giuridico, esso resta pur sempre una verifica esterna al processo di recupero (già avvenuto) che rappresenta, a mio avviso, per quanto detto prima (v. par. 7), momento costitutivo e finale per la trasformazione del rifiuto in prodotto, con le conseguenze giuridiche che ne derivano sul piano della disciplina applicabile (nella specie: ai rottami metallici recuperati presso il produttore) prima della verifica e della “cessione” ad altro detentore (v. oltre, par. 9).

    Sul piano concettuale sembra - dunque - corretto tener fermo e distinto il momento di perfezionamento di un accadimento (recupero completo del rifiuto, tramite gestione di un sistema della qualità) dalla fase, necessaria e doverosa, di una verifica-certificazione dell’applicato (o non applicato) regime di qualità (Quality Assurance).(53) 

    In conclusione, non si contesta, in queste note, né l’opportunità né tanto meno la legittimità delle scelte della Commissione (id est del regolamento) nell’affidare l’accertamento di qualità della gestione dei rottami metallici agli organismi preposti alla “valutazione della conformità” di cui ai Regolamenti (CE) 765/2008i o a “qualsiasi altro verificatore” previsto dal Regolamento (CE)  1221/2009 (EMAS).

    Ciò che non si condivide, in termini di legittimità (v. parr. 4 e 6), è la circostanza che il Reg. ha riportato l’EoW (cioè la cessazione della qualifica di  rifiuto ovvero la nascita del prodotto) non già al momento / fatto di conclusione delle operazioni di recupero, riciclaggio e preparazione per il riutilizzo - come imponevano le “condizioni” della direttiva 2008” ed il sistema giuridico comunitario vigente (secondo l’interpretazione della CGCE: v. retro par. 7) - ma alla fase necessariamente successiva e distinta (sul piano giuridico e funzionale dell’accertamento/prova/dimostrazione) della verifica dell’organismo accreditato. Il quale cade – come ripetuto - su un fatto già avvenuto (recupero dei rottami con applicazione o non applicazione di un sistema di gestione della qualità), a causa del meccanismo di rinvio operato dall’art. 3, par. 1, lett. d), che richiama (al rispetto del) le  prescrizioni dell’(art. 5 e) art. 6, comma 5.  (v. retro parr. 5 e 6).

    Né, infine, sembra insuperabile il rilievo secondo cui, avendo la Commissione CE  piena discrezionalità nella scelta dei “criteri” di cessazione della qualifica del rifiuto, essa ha imposto l’accertamento, da parte del verificatore, al fine di garantire, in particolare, che sussista la condizione sub lett. d) del par.1, dell’art. 6, della direttiva e cioè che: “.. l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana”. 

    In base a tale ricostruzione del Reg., si potrebbe aggiungere che la sicurezza che il  materiale non procurerà impatti sull'ambiente e sulla salute umana, può essere garantita unicamente nel momento in cui l’impresa è in possesso dell’accertamento dell’organismo preposto alla valutazione di conformità. Anche in questo caso staremmo ancora parlando di un ‘criterio’, che soddisfa una delle condizioni menzionate all’art. 6, par. 1, della direttiva“.

    Anche rispetto a queste ultime due prospettazioni, non intendo negare la “discrezionalità” della scelta dei “criteri” da parte della Commissione. Ovvero che il verificatore debba altresì accertare “la condizione” (costitutiva dell’EoW) della sussistenza o meno degli “impatti complessivi negativi”. 

    Ciò che non condivido attiene ad un diverso profilo,  e cioè:
a) non voler distinguere la situazione oggettiva relativa alla qualità del materiale recuperato (idoneo o meno a produrre determinati impatti), che preesiste al momento dell’accertamento del terzo, dalla distinta circostanza oggettiva, di successiva formazione della prova, costituita dalla verifica di quest’ultimo, che segue;

 b) ipotizzare che “la sicurezza” (su tali impatti) possa essere garantita unicamente.. al momento del possesso dell’accertamento dell’organismo preposto alla verifica, significa non tenere conto (o negare) che la prova (“garanzia”) fornita dall’organismo verificatore, secondo l’ordinamento comunitario e interno, non può qualificarsi esclusiva (“unica-unicamente”) ma fungibile e pertanto, anche per questo profilo, non costitutiva dell’EoW (v. anche oltre).   

    In sostanza, una cosa è prevedere che, “per garantire il rispetto dei criteri”, introdotti dal Reg., lo stesso imponga “… l’istituzione di un sistema di gestione della qualità” (v. il Considerando n. 4 della direttiva). Altra che detto sistema debba essere accertato esclusivamente dal verificatore accreditato, con i supposti effetti (costitutivi) sull’EoW.
   
    Il verificatore “accerta” la cessazione della qualifica di rifiuto (se si è già verificata oppure no, nell’avvenuto  rispetto o meno delle prescrizioni dell’art. 6, Reg.) non la determina, con la propria  verifica.

Il suo “accertamento” ha natura non costitutiva ma dichiarativa (della avvenuta nascita della nuova “qualifica”).(54)


8.2.    Accertamenti (distinti) dell’organismo accreditato, delle P.A. e dell’Autorità giudiziaria. Casistica.
   
    L’E.o.W., ovviamente, può essere valutata/accertata e dichiarata da altri soggetti, pubblici o privati (anche se con diversa efficacia probatoria v. oltre), prima dell’intervento dell’organismo accreditato, durante il periodo dei tre anni, cioè all’interno della scadenza codificata dall’art. 6, comma 5, ultima parte, Reg. e subito dopo l’accertamento del verificatore.   

    Gli esiti degli accertamenti degli organismi pubblici, competenti alla vigilanza e controllo in questo settore, investiti di funzioni di polizia amministrativa o giudiziaria, propria o delegata (come previsti dalla normativa di settore, relativa ai rifiuti e/o ai prodotti), potranno coincidere o differire dalle valutazioni dell’organismo accreditato (nel senso di confermare o smentire l’accertato o negato EoW).

    Ma, ove fossero in contrasto, fra loro, in relazione alla “qualità degli stessi rottami metallici ottenuti dalle operazioni di recupero”, secondo un determinato ed identico “sistema di gestione della qualità” ex art. 6, Reg., non mi pare dubbio che debba prevalere la certificazione del pubblico ufficiale rispetto all’accertamento dell’organismo privato, preposto alla valutazione di conformità, quanto meno nel nostro sistema ordinamentale connotato dal doppio regime: a diritto pubblico (amministrativo) e a diritto  privato (comune).(55)

    Con la conseguenza pratica che lo stesso materiale, per il quale il verificatore accreditato abbia accertato l’E.o.W., potrebbe essere qualificato ancora rifiuto, in base agli accertamenti documentali o analitici, per es., dell’ARPA o degli organi di p.g., effettuati prima o dopo le valutazioni favorevoli del primo.

    Questa ipotesi prevede logicamente anche il caso opposto: la qualificazione di “prodotto” riconosciuta al materiale metallico da parte delle Autorità pubbliche, considerato ancora rifiuto dall’organismo accreditato.
   
    Come dunque superare questo impasse se non nel modo indicato, che nega la costitutività dell’accertamento dell’Organismo accreditato, considerando la sua valutazione, come un onere aggiuntivo che si aggiunge al controllo pubblico?

    Ma v’è di più. Poiché l’applicazione delle norme, interne o comunitarie, è riservato, dalla Costituzione italiana (Titolo Quarto), in ultima istanza, agli organi giurisdizionali (ex art. 101 e ss. Cost.), qualsiasi forma abbia assunto il “verdetto” dell’organismo accreditato (cioè di valutazione/accertamento positivo o negativo, ai fini dell’E.o.W., sulla base del Reg. e del diritto italiano), esso potrà essere, ancora una volta, ritenuto inattendibile e disatteso (non solo dalla P.A., nei termini accennati sopra, con indagini tecniche poste a base di certificazione contraria, ma anche) dal giudice ordinario o amministrativo. Il quale, a seguito, per es., di perizia tecnica, pervenga ad un convincimento diverso da quello formulato “dall’organismo preposto alla valutazione di conformità” di cui al regolamento (CE) n. 765/208, che assume, fra l’altro,  la forma di sentenza. 

    In definitiva, l’autorità giudiziaria ben potrà accertare e dichiarare, in modo vincolante per tutti, per es. la permanenza (ancora) della qualifica di rifiuto, con riferimento al medesimo materiale metallico di cui era stata “accertata” la cessazione di detta qualifica, secondo le procedure di cui all’ art. 6, par. 5, del Reg., e viceversa.   


8.3.   Competenza statale “concorrente” in materia ambientale ed “esclusiva” sui mezzi prova.

    Che quello, appena delineato, sia il sistema normativo nazionale in cui va ricondotto l’accertamento dell’organismo verificatore e la sua natura dichiarativa e non vincolante (oltre che fungibile), risulta, peraltro, confermato indirettamente:

a) da una previsione espressa del Reg., peraltro del tutto pleonastica;
 e, in un senso più sostanziale:
 b) dai principi generali costituzionali, anche di matrice giurisprudenziale, che governano i rapporti  fra  Stati membri e l’Unione Europea, in materia ambientale (di gestione dei rifiuti) e, più specificamente, dei mezzi di prova sulla ricorrenza o meno del rifiuto e del non rifiuto (sottoprodotto, materia prima secondaria: oggi: EoW).

    Quanto al primo profilo, sub a), si richiama l’art. 6, comma 7, del Reg. secondo cui “ Il produttore consente l’accesso al sistema di gestione della qualità alle autorità competenti che lo richiedano”.  Se, come sembra di capire dal testo del comma, il Consiglio U.E. abbia voluto intendere che, alle Autorità statali competenti, deve essere consentito - da parte del produttore - l’accesso (e dunque le ispezioni, i controlli, le verifiche, documentali, tecniche o analitiche, ecc.) al “sistema di gestione della qualità” della propria impresa di recupero (così come l’art. 6 acconsente necessariamente che il verificatore accreditato e nominato, acceda in detto luogo), allora si può osservare, innanzi tutto, che la prescrizione risulta del tutto superflua.

    Le Autorità nazionali, proprio perché competenti alla vigilanza e controllo, ex lege, sono investite, nel diritto italiano, di funzioni pubbliche, esercitabili anche in forme coattive, che non necessitano certo né della previsione comunitaria né del “consenso” del controllato con riferimento, per es., alla verifica del sistema di gestione (della qualità) applicato al trattamento recuperatorio dei rifiuti (controllo documentale, controllo dei processi, delle tecniche di trattamento; monitoraggio della qualità dei rottami, prima e dopo il trattamento, registrazione dei risultati dei controlli, ecc.).       

    Va da sé che dette Autorità pubbliche formuleranno la loro valutazione tecnica - in esito all’accertamento della singola impresa, secondo gli stessi “criteri” comunitari, vincolanti, per tutti, del Reg. in esame - interpretandoli però in piena autonomia di giudizio, certamente non condizionato, in alcun modo, dall’accertamento del verificatore privato accreditato (eventualmente già formulato e difforme), stante il carattere pubblico dell’organo/ufficio che formulerà il giudizio, adottando, all’esito, i conseguenti atti di certificazione, di intimazione, di sequestro, di irrogazione di sanzioni, ecc.(56) 

    Per l’aspetto sub b),   relativo ai rapporti tra la sovranità nazionale dei singoli stati membri e l’Unione europea, secondo l’attuale assetto costituzionale  comunitario, è noto che la Corte di Giustizia -  tanto in relazione alla generale “materia ambientale”(57) quanto con riferimento allo specifico settore della gestione dei rifiuti – affrontando il tema del momento in cui il rifiuto, per effetto di trattamento di recupero, cessa di essere tale (divenendo m.p.s. o prodotto: nel nuovo lessico,  “Cessazione della qualifica di rifiuto”), ha affermato i seguenti principi (divenuti un vero o proprio acquis comunitario):

1)   “L'effettiva esistenza di un rifiuto” (ovvero della sua cessazione come rifiuto, per essere stato trasformato in un  prodotto o  materia prima), “secondo la direttiva, va accertato alla luce di un complesso di circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva ed in modo da non pregiudicarne l'efficacia”;

2)   “in mancanza di disposizioni comunitarie specifiche relative alla prova dell'esistenza di un rifiuto” (o di un non rifiuto: leggi anche E.o.W.),”… spetta al giudice nazionale applicare le norme in materia del proprio ordinamento giuridico in modo da non pregiudicare la finalità e l'efficacia della direttiva” (le norme in materia sono anche e necessariamente quelle che disciplinano i mezzi di prova e la loro efficacia, in un sistema a diritto amministrativo, come in Italia);

3)   “.. gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi definiti nelle direttive da essi trasposte, purché ciò non pregiudichi l'efficacia del diritto comunitario (in tal senso vedansi le sentenze della C.G.C.E. 21 settembre 1983, cause riunite 205/82-215/82, Deutsche Milchkontor e a., Racc. pag. 2633, punti 17-25 e 35-39; 15 maggio 1986, causa 222/84, Johnston, Racc. pag. 1651, punti 17-21; 8 febbraio 1996, causa C-212/94, FMC e a., Racc. pag. I-389, punti 49-51)”. Ovviamente la “libertà di scelta delle modalità di prova” (espressione di sovranità statale) riguarda, nel caso in esame, la prova di fatti rilevanti, disciplinati non solo da una direttiva (quella del 2008) ma anche da un Regolamento, immediatamente vincolante (quanto alla applicazione dei “criteri” menzionati) che, però, non può sovvertire né, più semplicemente, modificare il sistema nazionale delle “modalità di prova” anche con riferimento all’istituto, introdotto, ex novo, “dell’accertamento del sistema di gestione della qualità” ad opera dell’Organismo preposto alla valutazione di conformità”, ex art. 6, comma 5; 
4)   con la conseguenza che un sistema nazionale di mezzi di prova troppo restrittivo o troppo permissivo finirebbe con l’incidere sulla estensione stessa della nozione sostanziale di rifiuto e di non rifiuto. Cioè “…. Potrebbe pregiudicare l'efficacia dell'articolo 130, R del Trattato e della direttiva l'uso, da parte del legislatore nazionale, di modalità di prova come le presunzioni juris et de jure che abbiano l'effetto di restringere l'ambito di applicazione della direttiva escludendone sostanze, materie o prodotti che rispondono alla definizione del termine "rifiuti", ai sensi della direttiva”(58).

          In base a tali principi – afferenti l’accennato assetto costituzionale dell’U.E.  – resta confermato che l’accertamento del verificatore accreditato va collocato, all’interno dell’ordinamento italiano, nell’ambito della disciplina statale sui mezzi di prova (nella specie: del trattamento del rifiuto, della sua completezza, degli impatti sull’ambiente, del rispetto degli altri requisiti posti dalle fonti comunitarie, ad efficacia diretta  o indiretta, come la direttiva e il regolamento), che contempla – accanto alle verifica dell’organismo privato accreditato, introdotta, per la prima volta, dall’art. 6, comma 5, Reg. – un più ampio sistema codificato (sostanziale e processuale) di mezzi di prova (fra cui l’accertamento e la valutazione tecnica di determinati fatti e/o accadimenti) che possono essere forniti da privati, da incaricati di un pubblico servizio,  da organi pubblici investiti della potestà pubblica di vigilanza, controllo, autorizzazione, e sanzioni  (locali, regionali statali), ecc.

    A questi mezzi di prova il diritto positivo vigente assegna una diversa efficacia giuridica, secondo la normativa civile, amministrativa e penale (si pensi, con riferimento al “recupero dei rifiuti, tramite un sistema di gestione della qualità”, alla prova per testi, ovvero con  documenti privati o pubblici, con consulenza di parte, con accertamento-certificato, con certificazione pubblica, con perizia giudiziale, ecc.)(59). Ma nessuno confonderebbe il momento di perfezionamento di una fattispecie giuridica (nella specie: cessazione della  qualifica di rifiuto a seguito di una attività di recupero), con il momento di formazione e acquisizione dello strumento probatorio idoneo a dimostrare detto effetto (E.o.W.)(60).    


8.4.   Conferme fornite dai Regolamenti 765/2008 e 1221/2009.

    Poiché un rifiuto recuperato viene trasformato in prodotto, ed entra, in tale veste, nel mercato interno dell’U.E., a condizione che assicuri i “requisiti tecnici” prescritti per quel prodotto e garantisca gli interessi pubblici volti alla protezione della salute, della sicurezza e dell’ambiente,(61) si comprende perché l’art. 6, comma 5, del Reg. 333/2011, in esame, affidi “l’accertamento del sistema di gestione della qualità“(62) – adottato dall’impresa che recupera i rifiuti - agli “organismi preposti alla valutazione di conformità di cui al Regolamento 765/2008”(63) che pone norme “sull’accreditamento e vigilanza del mercato per quanto  riguarda la commercializzazione dei prodotti
    
    La finalità perseguita dal regolamento 765 cit., è quella di integrare e rafforzare le vigenti disposizioni contenute nella normativa comunitaria “di armonizzazione” in tema di vigilanza del mercato(64), con la previsione di organismi nazionali di accreditamento (art. 4) - raccordati ad una Infrastruttura europea di accreditamento (art. 14) – che attestano e certificano che un determinato “organismo di valutazione della conformità” soddisfi i criteri previsti dalle norme armonizzate (art. 2, nn.10 e 13)  nello svolgimento della sua attività (cioè di valutazione di conformità, tramite tarature, prove, certificazioni e ispezioni”: v. art. 2, n.13).

    In sostanza la normativa comunitaria di armonizzazione prevede la selezione di “organismi preposti alla valutazione di conformità” ad opera di un Organismo di accreditamento, unico per ogni singolo Stato (art. 2, p. 11), il quale, con una procedura “trasparente”, garantisce “il necessario livello di fiducia nei certificati di conformità” rilasciati dai verificatori alle imprese (art. 2, n. 12)(65). Proprio in quanto “autorità pubbliche nazionali” detti Organismi nazionali garantiscono la “competenza tecnica” di tali verificatori, la loro affidabilità e “.. la validità dei certificati e dei rapporti di prova rilasciati” (v. i considerando nn. 12 e 13 del  Reg. 765).

    Orbene, se gli Organismi nazionali di accreditamento “esercitano un’autorità pubblica indipendentemente dal loro status giuridico” (v. considerando 15), l’organismo di valutazione di conformità, come persona fisica o giuridica, svolge - secondo una procedura atta a dimostrare se le prescrizioni specifiche relative ad un prodotto, a un processo, a un servizio, a un sistema, ecc. siano state rispettate - una attività “indipendente”, tecnicamente “affidabile” (per quanto appena detto, grazie alla selezione compiuta in fase di accreditamento), in veste di soggetto “terzo” privato, su incarico di altro privato a seguito di un rapporto contrattuale (probabilmente di un contratto atipico).(66)     

    In buona sostanza, gli organismi di certificazione – cui il Regolamento 333, in esame, rinvia - sono soggetti privati che non esercitano una “autorità pubblica” (come gli Organismi nazionali di accreditamento, “indipendentemente dal loro stato giuridico”: v. Considerando 15, in fondo, Reg.  765 cit.).

    La “validità dei loro certificati e rapporti di prova rilasciati” (come sottolinea il 13 Considerando cit.) andrà ascritta, verosimilmente, alla “validità tecnica”, derivante dalla preventiva selezione del verificatore, secondo le procedure accennate,  e alla loro elevata competenza tecnica, oltre che terzietà”, piuttosto che alle funzioni esercitate e alla qualifica soggettiva rivestita, che dovrebbero restare private cioè ricadere nell’ambito del diritto privato, secondo l’ordinamento interno(67).  

    Il Regolamento 765, d’altronde, ha ben presente il distinto ruolo svolto e la diversa veste assunta – rispetto agli “organismi di valutazione della conformità” – dalle “autorità pubbliche “ dei singoli Stati che svolgono “attività” e adottano “provvedimenti” per garantire che i prodotti siano conformi ai requisiti stabiliti dalla pertinente normativa comunitaria di armonizzazione e non pregiudicano la salute, la sicurezza o qualsiasi altro aspetto della protezione del pubblico interesse (v. art. 2, p. 17(68)).

    Nella stessa lunghezza d’onda si pone il successivo Regolamento EMAS  1221/2009 nel definire il “verificatore ambientale” (art. 2, p. 20: organismo/associazione o qualsiasi persona fisica o giuridica, associazione accreditata)(69) come soggetto privato “abilitato” ad  effettuare verifiche ambientali.

    In tale ruolo nettamente contrapposto all’autorità pubblica statale “responsabile dell’applicazione della legge, come “autorità competenti, incaricate dallo Stato membro di rilevare, prevenire, indagare sulla violazione degli obblighi normativi applicabili in materia di ambiente  e , ove necessario, di adottare le misure necessarie ad assicurare il rispetto della legge” (art. 2, p. 26).

    Benché il Regolamento EMAS intenda assicurare la competenza e la indipendenza del verificatore ambientale – rispetto al committente, all’auditor e al consulente dell’impresa (indicata, con termine non precipuo, “organizzazione”: v. art. 2, p. 21) -  al fine di  “garantire  il rispetto di tutte le norme applicabili al riguardo” (art. 20, par. 4); nondimeno, esso si preoccupa, al contempo, di far sorvegliare i verificatori ambientali, attesa la loro natura di soggetti privati, incaricati da una impresa interessata, tramite un atto negoziale, da parte dei rispettivi Stati cui appartengono i relativi Organismi di accreditamento o di abilitazione (v. art. 23)(70).
Se i verificatori ambientali rivestissero la qualifica di pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio tale controllo statale, tramite l’organismo che ha concesso l’accreditamento o la abilitazione,  risulterebbe alquanto  anomalo….


9.   L’E.o.W. con riferimento “all’atto di cessione dal produttore” al terzo.
 

    1. Ancor più inattesa e incomprensibile la  soluzione introdotta del par. 1,  dell’art. 3, del Reg. il quale  – nel prevedere che “I rottami ferrosi e di acciaio cessano di essere considerati rifiuti allorché, all’atto della cessione dal produttore ad un altro detentore, sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni..” – sembra collocare  testualmente la cessazione della qualifica del rifiuto, sia in termini cronologici  che giuridici, all’ulteriore momento/atto della cessione dei rottami trattati ad un terzo, nuovo detentore (per il significato  di questi termini, v. art. 2, che definisce il “detentore”, alla lett. c), e, “il produttore”, alla lett. d).

    2. Innanzi tutto, cosa deve intendersi per “atto di cessione” ?
Cessione come operazione fisica di trasferimento, movimentazione del prodotto (recuperato dal rifiuto), secondo determinate modalità e tempi (su strada, per ferrovia per mare)? O come operazione giuridica in base alla quale il prodotto è fatto oggetto di un accordo contrattuale (per es. di “vendita”) e la proprietà del bene si trasferisce giuridicamente al momento del consenso delle parti legittimamente manifestato (contratto ad effetto reale, relativo al passaggio di proprietà del bene mobile, ex art. 1376, codice civile), in tempi di molto anteriori, e comunque diversi dalla cessione/spedizione/ acquisizione del materiale venduto/ceduto?

    Appare evidente che l’equivocità del termine, oggettivamente generico e polisenso, determina confusioni pericolose sul momento/atto della “cessione” e dunque sulla disciplina giuridica applicabile prima di questo “atto” (v. oltre).            

    3. Nel merito, “l’atto di cessione”, interpretato in entrambi i significati enucleati (ma soprattutto se riferito alla fase finale di trasferimento materiale del prodotto), si presenta come categoria giuridica, affatto nuova, e assolutamente estranea ed estrinseca alla “conclusione delle operazioni di recupero”, cui la direttiva rifiuti del 2008 riporta l’End of Waste. Cioè “quando taluni rifiuti siano sottoposti a un’ operazione di recupero, incluso il riciclaggio” (e la preparazione per il riutilizzo: v. retro par. 7) e soddisfino “ le condizioni e i criteri specifici” di cui al suo art. 3, par. 1. Sotto tale profilo, ancora una volta, il Reg. eccede dai limiti della delega ricevuta, ampliando la nozione di rifiuto in contrasto con le “condizioni” poste dall’art.6, della direttiva, sull’EoW.

    La nozione di “atto di cessione” oltre a risultare giuridicamente difforme dal parametro normativo della direttiva, appena esposto (attività di recupero, col raggiungimento di certi requisiti), genera delle conseguenze inaccettabili.

    Ove “l’atto di cessione” sia letto in termini commerciali e/o fattuali, come suggerisce l’espressione usata - che rinvia al passaggio materiale da un soggetto ad altro del prodotto (in francese: “au moment de leur transfert du producer à  un otre detenter”;  in inglese: “ upon transfer from the producer to another holder”) - si porrebbero delle delicate problematiche relative alla disciplina applicabile alla “gestione del materiale recuperato”.

    Mi riferisco, ovviamente, al comportamento da tenere con riguardo al rilevante lasso di tempo che intercorre, nei vari settori produttivi, fra il momento di produzione del bene (tramite impresa di recupero, ex art. 3, della direttiva) e momento, necessariamente successivo,  della sua commercializzazione (cioè appunto della  sua “cessione”).

    4. Se, come prevedibile, nella più parte dei casi, i prodotti ottenuti (nel caso i rottami di ferro e acciaio recuperati), saranno raccolti, a piè di impianto, movimentati presso una area/stabilimento di deposito e/o collocati in magazzini, della stessa impresa produttrice o di altra impresa intermediaria, ecc. -  prima dell’affidamento al trasportatore, per essere “ceduti al altro detentore” (acquirente, intermediario, ecc.) tramite mezzi di trasporto su gomma o per via mare, ecc., quale disciplina  rispettare per tutto il tempo e in relazione alla complessa movimentazione del prodotto che precede la consegna (la materiale ed effettiva “cessione”) al “nuovo detentore?

    La interpretazione del testo dell’art. 3, Reg. - che dia all’infelice formulazione regolamentare il significato letterale, in questa sede confutato(71) - avrebbe come esito finale di sottoporre il prodotto (da recupero) alla disciplina dei rifiuti (registro di carico e scarico, MUD, deposito temporaneo, deposito preliminare, trasporto dei rifiuti da un insediamento di produzione ad altro, per es. di spedizione, o di stoccaggio, ecc.) fino al momento della sua consegna dal produttore “ad altro detentore”, da intendere come acquirente finale (ovvero come primo “consegnatario”, intermediario….?), con aggravamento ingiustificato del regime giuridico applicabile (non del prodotto, ma ancora… del rifiuto).

    5. In definitiva, se il prodotto si forma con le modalità espresse  sopra (sub par. 7), appare evidente che la fuoriuscita dalla normativa sui rifiuti (End of Waste) va ricollocata, giuridicamente e cronologicamente, alla conclusione delle operazioni di recupero del rifiuto (nel rispetto delle modalità e nei termini posti dalle “condizioni” della direttiva e dei “criteri” del regolamento), prima ancora dell’atto di cessione, ex art. 3, par. 1, e  dell’accertamento del verificatore accreditato, ex art. 6, par. 5, Reg. (per le ragioni già esposte, retro).

    Ragionare diversamente, significa addossare al “produttore” iniziale, ex art. 2, lett. d) del Reg. - in ipotesi, all’esito di tutte le operazioni di recupero svolte secondo un sistema di gestione della qualità, che hanno generato un prodotto - tutti gli oneri e gli obblighi giuridici, formali e sostanziali (garantiti da sanzione amministrativa, civile e/o penale) che devono gravare, invece, sul produttore-detentore del rifiuto, prima del recupero non dopo (così come prospetta, in tesi, la lettura criticata, sulla considerazione cronologica della anteriorità dell’atto di recupero all’accertamento del verificatore e alla “cessione”).(72)

    6. In conclusione, la lettura confutata appare inappagante non foss’altro perché si pone in aperta contraddizione con gli effetti giuridici propri dell’attività di recupero oltre che  in base ad una esegesi (solo) letterale della norma che mi appare di per sé,  irragionevole e disincentivante rispetto al tanto auspicato potenziamento del mercato del recupero e del riciclaggio.  Un vero passo indietro rispetto al sistema giuridico precedente e all’auspicata società del recupero e del riciclo….

    A fronte di un testo approssimativo ed ambiguo, l’art. 3 del Reg. deve essere applicato secondo una interpretazione giuridicamente orientata che si conformi ai principi della direttiva 2008 (art. 6) i quali costituiscono, a loro volta, il precipitato di una giurisprudenza comunitaria risalente, sufficientemente omogenea e consolidata sul tema.  

    L’E.o.W. è ricondotto, dall’art. 6, come ripetuto, al termine  delle operazioni di recupero (secondo le condizioni sub a-d), con contestuale  soddisfacimento dei criteri regolamentari (art. 3, lett. a-d).  In tale contesto normativo, i rottami metallici cessano di essere rifiuti ovviamente all’atto della prima consegna  (da parte del “produttore” iniziale) non perché solo in quel momento (cessione) si è verificato l’E.o.W. ma in quanto, in precedenza, è intervenuto il produttore, sottoponendo i rifiuti al previsto e dovuto trattamento – cui la norma interna e comunitaria riporta il fenomeno del passaggio dallo stato di rifiuto allo stato di prodotto.

    Questo non significa negare, ovviamente, che, nel momento in cui il materiale (recuperato) è ceduto a terzi (ed entra nel circuito del mercato), la sicura trasformazione del rifiuto in prodotto (previo trattamento) assume anche una rilevanza giuridica esterna, con i connessi doveri di tutela della salute pubblica, dell’ambiente e del mercato delle merci.

    Probabilmente, la rilevanza esterna forse spiega perché il Reg. abbia riportato, incoerentemente, rispetto al sistema giuridico delineato, il “soddisfacimento di tutte le seguenti condizioni”, all’atto della cessione.  

    Ma, dopo quanto detto, va riaffermato che la trasformazione del rifiuto in prodotto  presso il produttore, è già avvenuta con le operazioni di recupero, secondo un sistema di gestione della qualità. E, a confermarlo, soccorre proprio la lett. d) dell’art. 2, cit. che definisce il produttore come “il detentore che cede ad altro detentore rottami metallici che (non cessano di essere considerati rifiuti nel momento in cui li “cede” ma ) “… per la prima volta hanno cessato, di essere considerati rifiuti”.

    Considerando le modalità di coniugazione dei due verbi: cedere e cessare  (“cede…rottami metallici” e “che hanno cessato di essere..” ),  ci si accorge che, rispetto al verbo “cedere” utilizzato nel tempo presente (“.. all’atto di cedere ad altro detentore”), il verbo “cessare” viene usato al passato prossimo (“.. che hanno cessato di essere considerati rifiuti”). Come dire che, all’atto della cessione, i rifiuti sono stati già trasformati in “prodotto”.
L’E.o.W. si è già verificato in precedenza, con il recupero, in un tempo “passato”, anche se più o meno “prossimo” alla cessione.(73) 

                                                                               *** ***

    A conclusione di queste note, mi accorgo che le questioni trattate sono tante (troppe..), le problematiche sollevate eccessive (e non concluse), le soluzioni applicative poche e ancora controverse. Occorrerà certamente attendere i più meditati interventi della dottrina e gli argomentati contributi della giurisprudenza, in base alla casistica offerta dal contenzioso, prima di attingere a più sicuri indirizzi esegetici ed applicativi.       

    C’è da chiedersi, comunque, se sarà mai possibile pervenire, dopo oltre un trentennio, ad una sistemazione delle fonti normative (primarie e secondarie, comunitarie ed interne) che regolano la esposta tematica, astrusa e poliforme, della nozione di “rifiuto” e della sua corretta demarcazione, concettuale e temporale, dalle categorie contigue di “sottoprodotto” e di “prodotto da recupero”.

    Solo a immaginare la prossima adozione dei futuri regolamenti, per le tante e differenziate tipologie di rifiuti recuperabili -  che andranno a “sovvertire” le normative tecniche interne, nel frattempo eventualmente adottate dai singoli Stati membri - c’è da dubitarne seriamente.

    Tanto più ove si rifletta sulla marcata libertà “rivendicata” dal primo Regolamento attuativo (sui rottami metallici), il quale, come sopra notato, si è allontanato dalle quattro “condizioni” poste dalla fonte primaria, introducendone indebitamente di nuove e alterando, in tal modo, incisivamente, proprio il momento costitutivo della formazione del prodotto (E.o.W.). Collocandolo, cioè, non più al termine delle operazioni di recupero ma al momento della “cessione”. E, prima ancora, assegnando effetti costitutivi (e non dichiarativi) all’accertamento del terzo verificatore, nell’esercizio di competenze che non gli erano state “delegate” perché riservate alla direttiva, in quanto ricadenti nell’area delle “condizioni” e non dei “criteri”.

    Con il rischio – poi - che un’eventuale diversità tra le prescrizioni tecniche dei prossimi regolamenti, in tema di E.o.W., potrebbe avere degli effetti devastanti su nozioni giuridiche di fondo – da ultimo faticosamente raggiunte -  come quelle  di “recupero”, “trattamento”, nascita delle materie prime secondarie (o cessazione della qualifica di rifiuto), ecc. - in una esasperata tipizzazione “dei criteri specifici” (per ciascun tipo di rifiuto) che finirebbe per impedire o rendere estremamente difficoltoso un qualsivoglia approccio “sistematico”, ancora necessario per  risolvere i casi di recupero non regolati, e la più vasta tematica del “non rifiuto”. Il tutto con finale esautoramento della fonte primaria, cioè degli artt. 3, 5 e 6 della direttiva, che fissano i principi inderogabili di una normativa-quadro sulla gestione dei rifiuti, cui le prescrizioni regolamentari debbono attenersi.
    
    Mi domando, da ultimo, se non siamo destinati, in un prossimo futuro, a valutare le questioni connesse alla “cessazione della qualifica di rifiuto”, in base alle sole normative tecniche – autonome e distinte, adottate ed applicabili caso per caso (cioè tipologia per tipologia di rifiuti) - senza necessità alcuna di ricorrere al (e quindi smarrendo il) contesto normativo d’insieme, costituito dalle norme primarie della direttiva 208/98. Norme inderogabili, per principio, dal primo come dai futuri regolamenti, proprio al fine ineludibile di garantire un sistema giuridico unitario (non casistico), stabile e coerente (soprattutto sulla nozione di rifiuto e relativa cessazione).

    Dovrebbe essere ormai noto, ai più, perché già sperimentato nella passata e presente esperienza, che il metodo della risoluzione delle singole vicende, con la sola applicazione di prescrizioni tecniche, specifiche e di dettaglio, senza la possibilità di ricorrere a “criteri generali e di sistema”, rende difficile la comprensione e l’applicazione spontanea delle norme, da parte dell’operatore; crea difficoltà e dunque dilazioni, se non inerzia, negli organi/uffici della P.A. competenti a provvedere o a controllare; determina dubbi e contenzioso che finiranno per “giurisdizionalizzare” qualsiasi difficoltà o contrasto  interpretativo, con l’ingresso – non indolore e comunque in tempi biblici – dell’unico, attendibile interprete del “caso per caso”, e cioè il Giudice (magari penale…), ovviamente dopo qualche lustro…. dall’insorgere del dubbio interpretativo e/o  della contestazione(74).

    L’alternativa ad una sistema giuridico di norme primarie, coerenti e di principio - che sottendono alle norme tecniche attuative e ne fissano, intrinsecamente i limiti  (e dunque i presupposti di  legittimità) -  è costituito da un sistema normativo disomogeneo  e per comparti, dove non si riesce più a distinguere la norma di principio da quella di dettaglio, la regola di comportamento e quella tecnica,  tanto che l’attività interpretativa si risolve nella ricerca, sempre più difficoltosa (ma doverosamente aggiornata), della specifica disciplina di settore ove rintracciare il precetto unico che regola la singola vicenda (sempre che ci sia…).

    Quest’ultimo sistema – cui sembra da qualche tempo indirizzato il moderno (e, ancor più, il contemporaneo) legislatore - è stato autorevolmente descritto con la formula (neppure tanto metaforica) di “nichilismo giuridico”(75) in quanto la norma non risponderebbe più al perseguimento di determinati valori (che trascendono il diritto positivo) e al rispetto di criteri di razionalità  e coerenza sistematica ma alla semplice e contingente volontà del legislatore storico (id est: degli  uomini in carne ed ossa che esercitano il potere legislativo).

    “Non c’è più un conoscere la verità del diritto.. ma un incessante e tormentoso volere. Volo ergo sum…. è la divisa del diritto”(76). Come è stato osservato, la crisi dell’unità normativa e del sistema, nasce nel periodo della “codificazione” e trapassa nel nuovo assetto normativo, acutamente descritto come “l’età della decodificazione”(77).  

    Se la situazione attuale, appena descritta, rappresenta la ineludibile realtà della odierna esperienza giuridica – resa ancor più difficoltosa e precaria dai mutamenti imposti dalla faticosa integrazione europea - non resterebbe, allora, che prenderne atto e  agire e/o intervenire, direttamente, nelle forme più varie, all’interno della fase di formazione delle singole normative settoriali (per migliorane, se possibile,  la qualità tecnica e la conformità alle fonti primarie), dimenticando o rinunciando, anche se contro voglia, all’armonia del sistema senza alcuna ingenua, improbabile o arrogante…. pretesa di “sistematicità”.

    Proprio a questa conclusione minimale – mi piace ricordarlo in chiusura – perveniva il più geniale filosofo del pensiero nichilista quando, in una più ampia ed amara ricognizione dell’attività umana (che, ovviamente, ricomprende la formulazione delle regole della vita sociale), affermava, sul finire dell’800, con un’ombra di cinismo, ma con grande realismo….: “ Diffido di tutti i sistematici e li evito… La volontà di sistema è una mancanza di onestà…”.(78) 

     
   Pasquale Giampietro        19.03.2012

 


NOTE:

 

(1)  Non stupisce che i rifiuti metallici siano stati tra i primi ad essere presi in considerazione dalla Commissione CE per individuare i relativi criteri di End of Waste, ove si consideri che l’art. 6, comma 2, della direttiva cit., già metteva in evidenza detti rifiuti nell’ambito di altre specifiche categorie di rilevante importanza, non pericolosità e sperimentata sicurezza del relativo mercato. Sul piano tecnico è utile evidenziare, sin da ora, che il materiale metallico può presentarsi come: 1) residuo/rifiuto da processo produttivo (rottame o cadute nuove da lavorazione): trattasi di residuo/rifiuto da produzione; 2) ovvero come rottame derivante da fine vita di un oggetto o da un manufatto: residuo/rifiuto da consumo. Il primo, sub. 1, poteva assumere la qualifica di “materia prima secondaria fin dall’origine, non oltre il  25 giungo 2011 (ex Circolare ministeriale 28.6.1999); ovvero, previa autorizzazione al recupero, quella di m.p.s. (oggi EoW); e, infine, ove attualmente risponda, fin dalla sua formazione, ai requisiti di legge, ex art. 184bis, la qualifica di sottoprodotto. Il secondo, previa operazione di recupero autorizzata (o in regime semplificato), m.p.s. (non più, fin dall’origine), ed oggi EoW (art. 184-ter).
Problemi specifici si pongono sul regime autorizzatorio (ordinario o ancora semplificato: v. oltre); sul regime transitorio e definitivo e sulla tipologia delle acciaierie autorizzate a ricevere il prodotto (da recupero) che dovrebbero essere sia quelle non autorizzate a ricevere i rifiuti che quelle autorizzate. 

     
(2)  Si riporta, di seguito, il testo dell’art. 6, della Direttiva 2008/98/CE:
 “1. taluni rifiuti specifici cessano di essere tali, ai sensi dell’art.3, p. 1, quando siano sottoposti a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio, e soddisfino criteri specifici da elaborare conformemente alle seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzata/o per scopi specifici;
b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto;
c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti;
d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana. I criteri includono, se necessario, valori limite per le sostanze inquinanti e tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente della sostanza o dell’oggetto…”.
Sulle novità introdotte dalla disposizione, mi permetto di rinviare a P. Giampietro, “ Dal rifiuto alla “materia prima secondaria” nell’art. 6, della direttiva 2008/98/CE (End of waste status e problemi di trasposizione nell’ordinamento italiano)”, 23 marzo 2010 www.Lexambiente.it (a cura di Luca Ramacci.)  In precedenza, v. P.G. (a cura di), “La nuova gestione dei rifiuti”, Introduzione, Milano, 2009, ed. Il Sole 24 Ore. Importanti approfondimenti dei temi esaminati, in questa nota, si rinvengono in “Commento alla direttiva 2008/98/CE sui rifiuti”, Milano, 2009, (a cura di F. Giampietro)  pg. 77-118; a cura dello stesso A.  “La nuova disciplina dei rifiuti”,  Milano, 2011, pg. 65-89. In argomento, da ultimo, per i profili sanzionatori, cfr. L. Ramacci, “Rifiuti: la gestione e le sanzioni”, Tribuna Juris, 2011, v. oltre, nota 78.


(3)  Ai sensi dell’art. 6 cit., comma 2, infatti: “le misure intese a modificare elementi non essenziali della presente direttiva, completandola, che riguardano l’adozione dei criteri di cui al paragrafo 1 e specificano il tipo di rifiuti ai quali si applicano tali criteri, sono adottate secondo la procedura di regolamentazione con controllo di cui all’articolo 39, paragrafo 2.”
La Commissione, per la redazione dei criteri in questione, si avvale quindi della cd. procedura di “regolamentazione con controllo”, anche detta la “Comitatologia di regolamentazione con controllo”, caratterizzata da un maggiore coinvolgimento del Parlamento Europeo nel processo decisionale (poiché tale organo ha la possibilità di controllare le proposte elaborate dai comitati di regolamentazione).


(4)  Va rammentato che l’elaborazione di tali “criteri specifici” compete in via solo tendenzialmente esclusiva alla Commissione, poiché in assenza di criteri comunitari, l’art. 6 cit., al comma 4, prevede comunque la possibilità, per gli Stati membri, di “decidere, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale tenendo conto della giurisprudenza applicabile. Essi notificano tali decisioni alla Commissione in conformità della direttiva 98/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 giugno 1998 che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione, ove quest’ultima lo imponga”. Resta fermo, comunque, che, senza la determinazione dei “criteri”, l’art. 6, della direttiva, si presenta come una norma non immediatamente applicabile salvo l’intervento dei singoli Stati, ai sensi del par. 4 (a differenza dell’art. 5, sui “sottoprodotti”).
In definitiva, la Commissione CE ha un diritto di prevalenza più che di precedenza perché, anche se adotta in ritardo detti criteri, essi prevalgono su quelli già assunti in sede nazionale per le singole tipologie di rifiuti secondo i noti canoni comunitari della priorità e sussidiarietà.   
 

(5)  Questo è il testo dell’art. 1 cit.: “il presente regolamento stabilisce quando i rottami di ferro, acciaio e alluminio, comprese le leghe di alluminio, cessano di essere considerati rifiuto”.
 

(6)  Cioè da un “organismo preposto alla valutazione della conformità di cui al reg. (CE) n. 765/2008…che pone norme in materia di accreditamento e vigilanza del mercato per quanto riguarda la commercializzazione dei prodotti, che sia stato riconosciuto a norma di detto regolamento…” (cfr. art. 6, commi 5 e 6). Il Regolamento cit. è stato adottato dal Consiglio U.E.  su proposta della Commissione, in assenza del parere del Comitato di cui all’art. 39, par. 1, della direttiva 2008/98CE e senza l’opposizione del Parlamento europeo, come si desume  dai  “considerando” nn. 7 ed 8 dello stesso provvedimento.
 

(7)  Non si tratta di una ipotesi astratta, ma – ripeto - di una realtà effettiva che ha interessato ed interessa una parte del mercato interno in cui molti recuperatori di materiale metallico non disponevano ancora, il 9 ottobre dell’anno scorso, dell’accertamento del verificatore.
 

(8)  Per la quale vale altresì il criterio ermeneutico specifico dell’effetto utile il quale prevede che, nell’interpretazione ed applicazione di una norma comunitaria, debba essere data la preferenza a quell’ interpretazione che consenta alla norma comunitaria di raggiungere più compiutamente i suoi obiettivi.
 

(9)  Tale ipotesi prevede la variante di autorizzazioni, intergrate o rinnovate, con il recepimento delle prescrizioni del Regolamento, con esclusione della prescrizione del par. 5 dell’art. 6 cit. (accertamento di conformità del terzo verificatore).
 

(10)  L’art. 288, comma 2, del Trattato prevede, infatti, che “Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri ”.
 

(11)  In particolare, si tratta di una fonte comunitaria ad efficacia diretta e piena, perché produce sia effetti “verticali”, nei rapporti tra singoli e Stato, che “orizzontali”, nei rapporti tra singoli cittadini.
 

(12)  Sulla natura giuridica dei regolamenti comunitari, si veda, in generale, ex multis, G. Tesauro, Diritto Comunitario, CEDAM, 2008, pagg. 141 e ss. Sulla efficacia diretta o meno delle fonti comunitarie, in materia ambientale,  e sull’efficacia delle sentenze della C.G.C.E. che le interpretano, con riferimento, in particolare, alla nota sentenza, Niselli  dell’11.11.2004, in causa, 457/02, mi sia consentito richiamare P. Giampietro, “L’interpretazione autentica, della nozione di rifiuto secondo la Corte di giustizia europea”, in Ambiente & Sicurezza, n.23/2004, pg. 29/30 e, in specie,  nota 33, con richiami di dottrina e giurisprudenza.
 

(13)  Cfr. F. Caringella, Compendio di diritto amministrativo, Roma, 2010, pag. 445, ed ivi ampi richiami di giurisprudenza amministrativa e della Corte di Giustizia.
 

(14) In tal senso si sono espressi  anche i primi commentatori del  Reg. 333/2011: si veda, fra gli altri,  D. Roettgen “Rifiuti, cessazione della qualifica: su rottami ferrosi e non la prima mossa della UE”, in Rifiuti e Bonifiche n. 11/2011, cit., pag. 60 e ss.
 

(15)  Il  Regolamento in esame  estende le sue prescrizioni a tutte e due le forme di recupero: ordinario e semplificato. Considerato la sua complessità, è possibile prevedere che, in futuro, il regime semplificato possa necessitare di un provvedimento autorizzatorio espresso che recepisca le introdotte  prescrizioni, trasformando detto regime in “ordinario”ed unificando la disciplina. Ma non è da escludere che si ricorra a clausole di mero rinvio al Regolamento nell’ambito di procedure semplificate.
Il necessario riesame (modifiche/integrazione) dei titoli abilitativi al recupero potrà avere effetti indiretti anche sulle clausole/prescrizioni dell’AIA. Il passaggio da m.p.s. a E.o.W. non significa né comporta però una modifica sostanziale dell’oggetto finale dell’attività di recupero (stante l’identità concettuale e giuridica delle due nozioni (su cui vedi oltre) ma solo una diversa modalità delle operazioni di recupero,  secondo i nuovi “criteri” del regolamento.
 

(16)  L’art. 184-ter, nel riprodurre sostanzialmente il contenuto dell’art. 6, della direttiva, prevede infatti che:
“1. Un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, e soddisfi i criteri specifici, da adottare nel rispetto delle seguenti condizioni:
    a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici;
    b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto;
    c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti;
    d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.
2. L’operazione di recupero può consistere semplicemente nel controllare i rifiuti per verificare se soddisfano i criteri elaborati conformemente alle predette condizioni. I criteri di cui al comma 1 sono adottati in conformità a quanto stabilito dalla disciplina comunitaria ovvero, in mancanza di criteri comunitari, caso per caso per specifiche tipologie di rifiuto attraverso uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400. I criteri includono, se necessario, valori limite per le sostanze inquinanti e tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente della sostanza o dell’oggetto.
3. Nelle more dell’adozione di uno o più decreti di cui al comma 2, continuano ad applicarsi le
disposizioni di cui ai decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio in data 5 febbraio 1998, 12 giugno 2002, n. 161, e 17 novembre 2005, n. 269 e l’art. 9-bis, lett. a) e b), del decreto-legge 6 novembre 2008, n. 172, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2008, n. 210. La circolare del Ministero dell'ambiente 28 giugno 1999, prot. n 3402/V/MIN si applica fino a sei mesi dall’entrata in vigore della presente disposizione..”.
 

(17)  Si rileverà, più oltre, che questa affermazione può essere seriamente confutata.
 

(18)  Si sottolinea, in proposito, che l’art. 6 cit., comma 2, prevede: :
“a) controllo di accettazione dei rifiuti utilizzati come materiale dell’operazione di recupero di cui al punto 2 degli allegati I e II;
b) monitoraggio dei processi e delle tecniche di trattamento di cui al punto 3.3 degli allegati I e II;
c) monitoraggio della qualità dei rottami metallici ottenuti dall’operazione di recupero di cui al punto 1 degli allegati I e II (che comprenda anche campionamento e analisi);
d) efficacia del monitoraggio delle radiazioni di cui al punto 1.5 degli allegati I e II, rispettivamente;
e) osservazioni dei clienti sulla qualità dei rottami metallici;
f) registrazione dei risultati dei controlli effettuati a norma delle lettere da a) a d);
g) revisione e miglioramento del sistema di gestione della qualità;
h) formazione del personale”.
 

(19)  Le “condizioni generali” -  e costitutive - per la EoW prescritte dalla direttiva cit. art. 6, attengono, infatti:
a) all’utilizzo dei rottami;
b) all’esistenza di un mercato per detti materiali;
c) al soddisfacimento di specifici requisiti tecnici per gli scopi cui sono destinati i materiali;
d) all’assenza di impatti ambientali negativi derivanti dall’utilizzo dei rottami,  ecc.
e pertanto non riguardano affatto la fase successiva di controllo relativa all’accertamento di un verificatore terzo accreditato (sullo scrutinio di tali condizioni, rinvio a P. Giampietro, “Dal rifiuto alla m.p.s. nell’art. 6, cit., in http://www.Lexambiente.it, del 23.03.2010. così analogamente detta la norma nazionale (art. 184 ter). 
Si intende dire che i nuovi adempimenti - documentali e comportamentali - introdotti a carico dei  soggetti recuperatori (Dichiarazione di conformità e Sistema di gestione della qualità), possono essere ritenuti necessari ed intrinseci alla  realizzazione e alla  documentazione della  idoneità ed efficacia delle operazioni di recupero, dei requisiti tecnici del prodotto ottenuto e dei relativi impatti sull’ambiente. Mentre l’accertamento successivo del verificatore non ha alcuna attinenza con le condizioni costitutive del processo di recupero del rifiuto e della  conseguente cessazione della sua qualifica (sulle operazioni di recupero e la loro valenza per l’EoW, v. oltre). Altrettanto dicasi per “l’atto di cessione” di cui a par. 1, dell’art. 3, Reg. (su cui, v. infra).    
 

(20)  E cioè:  (a)  rispetto di determinati requisiti di qualità e caratteristiche analitiche per i rottami (rifiuti) da recuperare;
(b) attuazione di specifiche tecniche e processi di trattamento per le due tipologie di rottami;
(c) soddisfacimento di determinati requisiti di qualità e caratteristiche analitiche per i rottami “in uscita dal processo di recupero” (“ottenuti dall’operazione di recupero”).

(21)   Da ribadire anche in questa sede.
 

(22)  La nozione giuridica di End of Waste e la disciplina di tale fenomeno si rinviene, infatti,  nell’art. 6 della Dir. 2008/98/CE, ai sensi del quale “.. taluni rifiuti specifici cessano di essere tali…. quando siano sottoposti a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio…”, ovviamente in conformità a determinate condizione e nel rispetto di “criteri specifici” (per questi ultimi, v. infra).  
 

(23)  Vedi, in tal senso, anche l’Allegato III, punto 7 del Reg. dove si specifica che “La partita dei rottami metallici soddisfa i criteri di cui alle lettere da a) a c) degli articoli 3 e 4 del regolamento (UE) n. 333/2011, peraltro senza alcun richiamo alla lett. d), sull’accertamento del verificatore esterno.
 

(24)  Che detta: “ I rottami di ferro ed acciaio cessano di essere considerati rifiuti allorché, all’atto della cessione dal produttore ad un altro detentore, soddisfano  tutte le seguenti condizioni…”.
 

(25)  Denominate “condizioni” dagli artt. 3 e 4 del reg. cit., con rischio di confusione, non solo terminologica ma anche concettuale, con le “condizioni” dell’art.6 della direttiva.
 

(26)  Vedremo, oltre, l’analoga natura costitutiva dell’atto di cessione del materiale “dal produttore ad altro detentore”, ex art. 3, par. 1, del regolamento (v. par. 9).
 

(27)  Esaminata, retro, in base alla formulazione delle norme regolamentari. Si è già visto, infatti, che i “criteri” posti dal Reg., per dare attuazione alle “condizioni” della direttiva, sono costitutivi della nozione di cessazione della qualifica di rifiuto, in base all’art. 6 della direttiva che subordina tale cessazione al rispetto di tutte le  “condizioni” di cui al par.1, lett. a-d),  nonché dei “criteri”, di cui a par. 2.  Ciò che si contesta, in definitiva, è che il Reg. abbia inserito - nell’art.6 - il par. 5, trasformando l’accertamento del terzo a “criterio” integrativo costitutivo, al di fuori dei poteri/ambiti di delega assegnatigli.
 

(28)  Qualora queste “prescrizioni” travalicassero detti limiti.
 

(29)  Che  attengono – invece e propriamente- alle operazioni di recupero, ai profili tecnici relativi agli scopi specifici cui è destinato il prodotto; alla normativa e agli standard esistenti applicabili ai prodotti; agli effetti di impatto complessivi negativi, ecc., cioè a condotte del tutto distinte dalla successiva verifica del terzo.  
 

(30)  Così come non può condividersi la ritenuta efficacia costitutiva dell’EoW assegnata al finale “… atto della cessione dal produttore ad altro detentore” del materiale, ai sensi dell’art. 3, par. 1 del Reg., per le ragioni indicate, oltre, a par. 9 e ss.
 

(31) V. D. Roettgen, in “Ambiente e Sicurezza”, n. 11/2011, cit., pag. 62.
 

(32)  A questo punto, ci si potrebbe domandare: se si ipotizza che la fonte attuativa possa apportare “integrazioni sostanziali”, tanto da divenire “fonte secondaria.. autonoma” rispetto alla direttiva, per quale ragione si è premesso che la direttiva rappresenta una “sorta di delega che fissa i paletti” (le così dette “condizioni”) da “rispettare “ (da parte del regolamento)  posti dall’art. 6 della direttiva? E come può rappresentarsi, senza cadere nell’ossimoro giuridico, una fonte “secondaria” (attuativa e di dettaglio) che sia anche “autonoma” tanto da aggiungere “condizioni” costitutive non ricadenti nei “criteri” (che il Reg. era delegato a fissare, secondo i ridetti  limiti della delega) e non previste dalla fonte primaria (direttiva)?  
 

(33)  Che, in base al nuovo Regolamento, sarà svolta secondo un sistema della qualità,  ex artt. 3-6 citt.
 

(34)  O di “cessione” del materiale, ai sensi dell’art. 6, primo paragrafo, dal produttore a terzi. V., oltre, par. 9.
 

(35)  Si veda, in dottrina, V. Paone, La tutela dell’ambiente e l’inquinamento da rifiuti, Giuffrè, 2008, pag. 135 e ss. che evidenzia la decisività della sentenza, “…. pietra miliare in materia di definizione di rifiuto” e, al contempo, della “materia prima secondaria” (ed ivi rassegna completa di giurisprudenza e dottrina precedente e coeva).
L’attento Autore desume dalla stessa decisione i seguenti principi: “… A) il recupero del rifiuto è una trasformazione integrale e completa del residuo che, per effetto del trattamento subito, perde (ordinariamente) la qualifica di rifiuto; b) il recupero comporta l’ottenimento di un prodotto analogo ad una materia prima per caratteristiche e proprietà utilizzabile pertanto nelle stesse condizioni di tutela ambientale; c) il concetto di trasformazione preliminare si connota perciò per essere un recupero del rifiuto non completo: in questo senso depone anche l’aggettivo preliminare che significa preparatorio; d) la trasformazione preliminare, qualunque ne sia l’entità, la natura e l’efficacia, non fa perdere al materiale residuo la qualifica originaria di rifiuto; e) nella nozione di trasformazione o trattamento preliminare rientra qualsiasi operazione tecnica, anche di minima entità, come la cernita o l’adeguamento volumetrico che modifichi le caratteristiche fisico-chimiche del materiale” (pag. 135/136). In  precedenza, a commento critico della sentenza Arco, v.  le specifiche considerazioni svolte in P. Giampietro, “La nozione comunitaria di rifiuto va accertata dal… giudice nazionale: parola della Corte di Giustizia (sentenza Arco 15. 6. 2000)”, in Ambiente, n.10/2000, con approfondimento sulla nozione di “recupero” preliminare o “completo” (pagg. 905 e ss.).  
 

(36)  Sulla sofferta problematica  del passaggio di una “sostanza o di un oggetto ”dalla qualifica di rifiuto a quella di prodotto o materia prima secondaria (oggi denominata con termine indeterminato e descrittivo (ma non definitorio) come “cessazione della qualifica di rifiuto” , cfr. “La nuova gestione dei rifiuti” (a cura di P. Giampietro), Milano, Il Sole 24 Ore, 2009 (v. Capitolo II, pagg. 19 e ss., ed ivi amplia bibliografia e giurisprudenza); da ultimo, il denso e aggiornato volume di P. Fimiani, La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2011, pag.  167 e ss. il quale ricorda come la giurisprudenza italiana, sulla scorta di quella comunitaria, ha riportato la nozione di materia prima secondaria (oggi: di cessazione della qualifica di rifiuto) al completamento delle operazioni di recupero. Questo il brano:
 “L’inerenza del concetto di materia secondaria al versante del recupero, fu subito colta dalla giurisprudenza che evidenziò come tale categoria era stata “introdotta dal d.lgs. n.152/2006 al fine di escludere dalla disciplina dei rifiuti quelle sostanze che, fino dalla origine o dopo adeguate operazioni, presentano specifiche caratteristiche tecniche, fissate con decreto ministeriale, e sono idonee ad essere usate in un processo produttivo industriale o ad essere commercializzate”. In giurisprudenza, fra le tante, si afferma che “Anche le m.p.s. sono soggette alla normativa sulla gestione dei rifiuti sino al loro recupero completo, coincidente con il momento in cui non occorrono ulteriori trasformazioni per il successivo uso” (cfr., in tal senso,  Cass. Pen., sez. III, n. 38495/2007). Lo stesso Autore aggiunge, in op. cit., pag. 169: “… In questo contesto, il d.lgs. n. 205/2010 ha abrogato l’art. 181-bis, introducendo l’art. 194 – ter. Non si fa più riferimento espressamente alle materie prime secondarie, ma ai criteri di cessazione della qualifica di rifiuto, prevedendo, al comma 1, che “un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, e soddisfi i criteri specifici, da adottare nel rispetto delle seguenti condizioni….”:
 

(37)  In tal senso, v. P. Fimiani, op. cit., pag. 171 che osserva: “…Anche se manca l’espresso riferimento alle materie prime secondarie, il concetto è comunque immanente alla norma, ed identica la sostanza o l’oggetto risultato finale dell’operazione di recupero che, alle predette condizioni, costituisce non più rifiuto, ma un bene di mercato. Viene, sostanzialmente, riproposto anche il concetto di m.p.s. fin dall’origine, atteso che il comma 2, parte prima, prevede che “l’operazione di recupero può consistere semplicemente nel controllare i rifiuti per verificare se soddisfano i criteri elaborati conformemente alle predette condizioni”.
 

(38)  In tema, vedi, ancora, P. Fimiani, op. cit. pag. 171, il quale sottolinea che: “… Quello che caratterizza la materia è, quindi, la tipicità dell’operazione, intesa come la “conformità alle caratteristiche tecniche fissate con apposito decreto ministeriale in attesa del quale continuano ad applicarsi per espressa disposizione transitoria (art. 181, comma 6) le norme di cui al d.m. 5 febbraio 1998 (per i rifiuti non pericolosi) o al d.m. 161/2002 (per i rifiuti pericolosi),” ed oggi, per i materiali metallici, il nuovo Reg. Nella giurisprudenza, cfr. Cass. Pen., sez. III, n. 14557/2007 che, nel caso deciso, rilevava come  mancasse la prova che le sostanze depositate in un capannone rispettassero le caratteristiche tecniche specifiche richieste da detti decreti ministeriali, nonché la prova che i materiali fossero stati effettivamente e oggettivamente destinati all’utilizzo in cicli di produzione o di consumo. L’elemento della tipicità è stato posto in evidenza anche da Sez. III, n. 39735/2009 che ha affermato di essere in presenza di un rifiuto ove non ricorrano le condizioni previste dalla normativa tecnica. In questa prospettiva, v., ancora,  Cass. Pen. Sez. III, n. 617/2009 la quale ha affermato che la carta da macero la quale “presenta in modo evidente una rilevante quantità di impurità, superiori alla misura dell’1% prescritto dalla normativa vigente ossia il d.m. 5 febbraio 1998 Allegato 1 n.1, costituisce non materia prima secondaria ex art. 181, comma 12, d.lgs. n.152/2006 bensì rifiuto”.
 

(39)  Salvo ad aver rilevato, sopra,  che il  “criterio” relativo all’accertamento del terzo verificatore accreditato, suscita i dubbi di legittimità sollevati in quanto, anziché essere collocato nella fase procedimentale di controllo dell’avvenuto, rituale recupero, è stato inserito fra le “condizioni” di cessazione della sua qualifica.
 

(40)  La frase fa virgolette è di P. Fimiani, op. cit. pag. 171,  il quale osserva perspicuamente: “ .. Il richiamo all’art. 9-bis del d.l. 6 novembre 2008, n. 172 ha l’effetto di riproporre la questione dell’applicabilità della norma in sede di rilascio di nuove autorizzazioni regionali al recupero con produzione di m.p.s. diverse da quelle previste dalle norme tecniche.”
Sulle norme tecniche l’attento Autore sottolinea, in generale, che: “  Queste, infatti, assumono, tanto nel vecchio, quanto nel nuovo sistema, un carattere di centralità ed il loro rispetto costituisce un elemento essenziale per la cessazione, all’esito del recupero, della qualifica di rifiuto e per la configurabilità di una m.p.s.”. Si noterà che tale ultimo termine (M.P.S.) è usato come equivalente o sinonimo di “cessazione della qualifica di rifiuto (o, in gergo, e in voga, come  EoW).
 

(41)  In tal senso si veda anche, fra le più recenti decisioni del giudice amministrativo,  TAR Veneto, Sez. III, 29 settembre 2009, n. 2454, che ribadisce gli esposti principio, in riferimento ai residui di attività di costruzione, in www.dirittoambiente.it.
 

(42)  In tema,v. il recente volume collettaneo “Commento alla direttiva 2008/98/CE sui rifiuti (a cura di F. Giampietro), Milano, 2009, cit., Cap. III “La nozione di materia prima secondaria (End of Waste), a cura di D. Röttgen,  il quale evidenzia, fra l’altro, i seguenti punti salienti: a)  la problematicità di chiarire “quando un rifiuto, a valle di determinate operazioni di recupero, cessa di essere tale diventando nuovamente fruibile per il mercato come prodotto” (pag. 78); 2)   “L’art. 6 si è limitato a stabilire soltanto i “paletti” da rispettare nell’elaborare specificamente, per ciascun flusso di rifiuti .. i criteri specifici che questi deve soddisfare per poter uscire dal novero dei rifiuti. Nella traduzione italiana della direttiva detti paletti  sono stati definiti “condizioni” . Esse sono ben da distinguersi dai “criteri specifici” da elaborasi sulla base delle condizioni”  (come dire, se non fraintendo,  che i “criteri” specifici devono rispettare “le condizioni”); in definitiva: “Le condizioni stabilite dall’art. 6, comma 1, sono da intendersi cumulative ed esaustive . I criteri specifici di EoW dovranno pertanto rispettare tutte le condizioni stabilite dall’art. 6…”  (v. pagg. 86/87). E’ appena il caso di aggiungere che la proposta iniziale della direttiva, formulata dalla Commissione Ce faceva ricorso al termine “materia prima secondaria” poi sostituito da altre più generiche e atecniche formule come Est of Waste ovvero  Fin du statut du dechet, ecc. rispetto  alla formulazione italiana “Cessazione della qualifica di rifiuto”.
 

(43)  Nell’ultima proposizione del considerando 22 della direttiva, si evidenzia, per un verso, la derivazione dell’EoW dalle attività di recupero e, per altro verso, che tale ultima nozione è stata dilatata fino a comprendere anche attività molto elementari: “ … Per la cessazione della qualifica di rifiuto, l’operazione di recupero può consistere semplicemente  nel controllare i rifiuti per verificare se soddisfano i criteri voti a determinare quando un rifiuto cessa di essere tale” .
 

(44)  Per i profili generali dell’art. 6, ed, in particolare, per l’analisi delle sue condizioni; per i profili di novità della nozione di recupero dal cui completamento deriva la cessazione della qualifica di rifiuto e, infine, della sostanziale riconducibilità dell’EoW alla precedente categoria giuridica della “materia prima secondaria”, mi permetto di rinviare a P. Giampietro, “ Dal rifiuto alla materia prima secondaria nell’art. 6 della Direttiva 2008/98/CE  23.3.2010, in Lexambiente.it  a cura di L. Ramacci).
 

(45)  Sulla nozione di rifiuto e non rifiuto nella giurisprudenza comunitaria ed interna, v., per ulteriori aggiornamenti e completezza il volume di P. Fimiani, “La tutela penale dell’ambiente”, cit., Milano, 2011, Cap. III, pg. 136.
 

(46)  Il Capitolo III del volume curato da F. Giampietro, “Commento alla direttiva 2008/98”, cit., pg. 77, è intitolato, infatti “ La nozione di materia prima secondaria (End of Waste)”.
 

(47)  Fornisce la stessa spiegazione: P. Fimiani, op. cit., pg. 170.
 

(48)  Tant’è che il “considerando” n. 2 del Regolamento evidenzia che:” Le relazioni del Centro comune di ricerca della Commissione europea indicano l’esistenza di un mercato e una domanda per i rottami di ferro, acciaio e alluminio destinati ad essere impiegati come materie prime (feedstock) nelle acciaierie, nelle fonderie e nelle raffinerie di alluminio per la produzione di metalli. I rottami di ferro, acciaio e alluminio dovrebbero pertanto essere sufficientemente puri e soddisfare le pertinenti norme o specifiche richieste dall’industria metallurgica”. Da ultimo. D. Röttgen, in La nuova disciplina dei rifiuti, cit. 2001, pag. 69, afferma, in linea di principio che: “ In estrema sintesi, il comma 1 dell’art. 6 conferma che l’EOW si perfeziona in termini giuridici e merceologici, allorché l’attività di recupero si è conclusa , ossia “ a seguito di operazioni di recupero” e quando il materiale prodotto corrisponda a determinati criteri da stabilirsi in base alle condizioni di cui al comma 1”.
 

(49)  Vedi  il “considerando” n. 3 della direttiva 2008, che reiteratamente riconduce la fine del rifiuto alle operazioni di  recupero. Questo il suo tenore:  “ I criteri per determinare quando alcuni tipi di rottami metallici cessano di essere considerati rifiuti devono garantire che i rottami di ferro, acciaio e alluminio ottenuti mediante un’operazione di recupero (resulting from a recovery operation) soddisfino i requisiti tecnici dell’industria metallurgica, siano conformi alla legislazione e alle norme vigenti applicabili ai prodotti e non comportino ripercussioni generali negative sull’ambiente o sulla salute umana. Dalle relazioni del Centro comune di ricerca della Commissione europea si ricava che i criteri proposti per definire i rifiuti impiegati come materiale nell’operazione di recupero (in the recovery operation), i processi e le tecniche di trattamento nonché i rottami metallici ottenuti dal recupero, soddisfino i suddetti obiettivi…”.    
Non può  quindi condividersi la tesi espressa in “Commento alla direttiva 2008/98/CE” cit. (a cura di F. Giampietro), pag. 89 - secondo cui “la maggior parte delle “condizioni” dell’art. 6, “sembrerebbero non derivare dalla giurisprudenza della Corte di giustizia  resa in tema di EoW sotto la precedente direttiva rifiuti”.
A mio avviso, le quattro condizioni poste – “che fungono da quadro di riferimento …. sulla cui base dovranno essere elaborati conformemente i criteri specifici” riservati alla Commissione (v., ivi, pag. 86) ” -  pur nella novità della formulazione terminologica e nella oggettiva semplificazione del precedente contesto normativo, ricalcano i criteri elaborati dal giudice comunitario sia in termini di  “recupero completo” (v. quanto osservato nel testo) che di “comparabilità” con la materia prima vergine (v. lett. c) di par. 1, dell’art. 6); mentre, per le condizioni delle lett. a) e b), appare evidente che l’utilizzazione della sostanza per scopi specifici e l’esistenza di un mercato o di una domanda, logicamente richiamano  ed escludono il rischio che il materiale sia abbandonato o debba essere disfatto (garantendo che esso venga recuperato e reimesso sul mercato).  Deve invece pienamente condividersi la conclusione cui si perviene secondo cui “ In ogni modo, il grado di dettaglio delle condizioni  e il loro contenuto sostanziale danno motivo per ritenere che le condizioni di cui all’art. 6, par. 1, non  siano di natura declaratoria “(id est dichiarativa)” ma costitutiva” (v. pag. 87), come ripetuto nel testo. E, in quanto tale, non derogabili né estensibili dalla norma attuativa/esecutiva  regolamentare, pena la sua illegittimità per eccesso di delega.  
 

(50)  E’ ben vero che l’art. 6 della direttiva non richiama la formula “materia prima secondaria” ma “cessazione della qualifica di rifiuto”, come l’art. 184-ter,  ma la novità non è sostanziale, per quanto detto, ma lessicale (oltre che peggiorativa in quanto non fornisce una “definizione” giuridica, come in precedenza, ma una incerta “descrittiva”, a-tecnica, senza alcuna qualità individuante sul piano giuridico (con la conseguenza che il Regolamento attuativo, del tutto forzatamente e indebitamente, ha interpretato tale “descrittiva” riportando l’EoW….. al momento della “cessione del rottame recuperato dal produttore ad un altro detentore” (sul punto v. oltre, par. 9), dilatando in tal modo – indebitamente – la nozione di rifiuto, ben oltre la fine delle operazioni di recupero, in violazione di una norma di principio della derettiva-quadro sulla gestione dei rifiuti.
Né esiste “.. alcun principio desumibile dalla  Direttiva, ossia quello“.. del “Tertium non datur” (o si tratta di un rifiuto o di un prodotto” (così ne “La nuova disciplina dei rifiuti, Milano, 2011, cit. (a cura di F. Giampietro), pag. 69, cit. Perché il  richiamo a tale principio è del tutto forzato e congetturale in quanto, sia prima che dopo la direttiva del 2008, le m.p.s. non erano e non sono considerate da nessuno e in alcun modo un “tertium genus”. Esse erano infatti contrapposte al rifiuto in quanto considerate “merce” o “prodotto” o “bene”, circolanti nel mercato come qualsiasi altro prodotto.
L’identità del regime giuridico (proprio del prodotto) – sia delle m.p.s. che dell’EoW -non poteva e non può far velo alla loro identica provenienza (non da materia prima vergine).  Erano prodotti che nascono dai rifiuti  per effetto di recupero, ex art. 181 bis T.U.A.,  come sono  prodotti (EOW) quelli che derivano dai rifiuti, a seguito di recupero,  nell’art. 184-ter (e prima ancora dall’art. 6 della direttiva 2008). Da un punto di vista giuridico nulla è cambiato, quanto all’origine e alla  denominazione…..(salvo la variante lessicale, dell’EoW, molto trendy, tanto da essere usata anche retroattivamente alla normativa passata, come quando, con riferimento all’art.184-er si osserva “che continuano – senza ombra di dubbio – ad applicarsi i succitati meccanismi EOW previsti dalla vigente normativa italiana” v. pag. 73, op. cit. ).

(51)  Le anomalie testuali e concettuali che si rinvengono nel Reg. - per quanto riguarda, nella specie,  la natura giuridica dell’accertamento del terzo verificatore (senza riferimento ad alcuna distinzione fra l’accertamento di un soggetto privato e la diversa natura di un accertamento che costituisce espressione di funzioni o potestà pubbliche di un ufficio/organo pubblico) ovvero la anomala (per l’ordinamento italiano) previsione secondo cui il produttore “consente…… l’accesso al sistema di gestione della qualità all’autorità competente che lo richiedano”, ex par. 7, dell’art. 6 - sono conseguenza  della diversa caratteristica “del Diritto delle Amministrazioni pubbliche”. Le quali, in alcuni Stati, vedono, accanto al diritto costituzionale, il “preesistente diritto comune agli operatori giuridici privati e pubblici “  (così in Inghilterra, Stati Uniti). In altri paesi, invece,  si “ costituisce un diritto amministrativo nel senso di ramo a sé della normazione pubblicistica, avente un contenuto, proprio e tipico, per regolare l’attività specifica delle pubbliche amministrazioni” (in quest’ultimo si costituiscono dei rapporti, retti dal diritto amministrativo, che hanno carattere autoritativo”. In tal senso, le sempre lucide riflessioni, sopra riportate, di M.S. Giannini, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 1981, pagg. 8-10. e, di recente, ex multis, le dettagliate distinzioni di F. Caringella, Compendio di diritto amministrativo, Roma, 2010, pag. 107 e ss., sul “Potere amministrativo”.  
 

(52)  In tale ottica, esso non andrebbe inteso come momento successivo e distinto rispetto al momento di cessazione di rifiuto, in esito al completamento delle operazioni di recupero, secondo un sistema di gestione della qualità.
 

(53)  Si può convenire sulla considerazione che la ‘gestione della qualità’, si compone di un secondo elemento relativo alla fase di accertamento o di audit esterno da parte di un terzo accreditato a patto che tale fase di accertamento, come “criterio” di gestione della qualità, non segni giuridicamente e cronologicamente la nascita del prodotto (cioè l’ EoW), trattandosi di una verifica comunque esterna al processo di recupero già ultimato o perfezionato (v. retro).
E, d’altra parte, nel rapporto degli organismi tecnici della Commissione CE (“End-of-waste Criteria for Iron and Steel Scrap: technical proposal”; JRC Lenka Muchova and Peter Eder;  2010), è dato leggere:  “ The TWG has expressed very strong support for making quality assurance requirements part of the end-of-waste criteria. Quality assurance is needed to create confidence in the end-of-waste status. (…)  It is considered appropriate and proportional for end-of-waste criteria to require that a quality management system be implemented and externally verified. Such verification should assess if the quality management system is suitable for the purpose of demonstrating compliance with the end-of-waste criteria applicable to the case in question”,  a me sembra che  resti confermato come l’intervento del verificatore è configurato dal Regolamento come una verifica esterna (“externally verified”) del “quality management system”, con finalità di prova (o dimostrazione): “  for the purpose of demonstrating compliance with the end-of-waste criteria… “).
In definitiva: verifica “esterna” a che cosa? Ma certamente alla formazione (o non formazione) dell’EoW.
 

(54)  Per chiarire il concetto, ricorrendo ad una metafora (peraltro sempre pericolosa per la sua intrinseca approssimazione), si potrebbe esemplificare osservando  che il passaggio (o meno) dallo stato di malattia a quello di guarigione (nella specie: dalla condizione di  rifiuto a quella di prodotto) è dichiarato dal medico, previa idonea valutazione del paziente, e non dipende dal suo accertamento clinico, che non crea la “guarigione” ma si limita ad esprimere un giudizio su un fenomeno fisiologico  (la guarigione) che il malato ha, prima della visita, già raggiunto (o meno). E’ ben vero che la norma giuridica – contro la realtà del fenomeno biologico e dei criteri logici - potrebbe assegnare al certificato medico natura “costitutiva”  (dell’avvenuta guarigione) ma, nella specie, l‘art. 6 della direttiva non conferisce tale costitutitività (dell’EoW) all’accertamento del verificatore privato – riportandola invece “alla sottoposizione ad una operazione di recupero, incluso il riciclaggio”  - mentre sembra farlo, illegittimamente, come indicato, il Reg., fuoriuscendo in tal modo, dai limiti delle competenze attuative “delegategli” dalla direttiva, ex par. 2 di tale ultimo articolo (v., retro, par. 6).  
 

(55)  V. retro, nota 50. Queste “funzioni accertative” dei pubblici ufficiali – con ricognizione di dati di fatto e valutazioni tecniche – assicurano “certezza legale” cioè “fanno piena prova dei fatti indicati nelle certificazioni fino a “querela di falso”,  ex art. 2699 e ss. del codice civile (quanto all’atto pubblico) e ex art. 221 c.p.c. (per la querela di falso)
 

(56)  E’ noto che la dottrina amministrativa opera sottili distinzioni nell’ambito degli atti di “conoscenza”, fra gli “atti dichiarativi o di accertamento” - che sono espressioni di dichiarazioni di scienza e si materializzano in “documentazione” ovvero “certificazione” (attestazione di determinati atti, fatti o qualità) – “atti di giudizio”, come i pareri o le valutazioni tecniche, che sono espressioni di una discrezionalità tecnica, sindacabile dal giudice amministrativa “.. in quanto tali  valutazioni, secondo le regole delle scienze o delle arti,  sono costitutive del fatto oggetto del giudizio”  (così F. Caringella, op. cit., ed.  2010, pag. 411 e 412).   
 

(57)  In tema, fra i molti, v. Codice dell’ambiente, Milano, 2009, pag. 45 e ss., a cura di A. Nespor e A.L. De Cesaris.  
(58)  I brani fra virgolette sono ripresi dalla nota sentenza della C.G.C.E. 15 giugno 2000, ARCO, punti 70, 4i, 42.  In tema, cfr. V. Paone, La tutela dell’ambiente cit. pag. 127. Per una lettura critica, v. P. Giampietro, La nozione “comunitaria” di rifiuto…cit., in Ambiente, 2000, pg. 905 e ss.. Per aggiornamenti di giurisprudenza e dottrina, cfr. P. Fimiani, La tutela penale dell’ambiente, 2011, cit. 166 e ss.  
 

(59)  Mi sembra inutile approfondire la diversa efficacia (tenuta) probatoria di tali distinte tipologie di accertamento-valutazione –prova dell’EoW, conseguente non solo al grado/misura  di verifica del fenomeno esaminato (qualità tecnica e profondità della valutazione), ma anche della  qualifica rivestita dal soggetto accertatore/valutatore e delle funzioni esercitate (private  o pubbliche) all’interno del nostro sistema ordinamentale, di diritto privato, amministrativo e giurisdizionale (con riferimento all’efficacia della sentenza e al sistema processuale delle prove, nel rito  penale, civile e amministrativo).   
 

(60)  E’ noto, per es., che, nel diritto civile, si attribuisce alla  forma scritta (atto/documento) una distinta  efficacia: di regola, “ad probationem”, eccezionalmente:  “ad substantiam”. Così nel diritto amministrativo,  si conoscono gli accertamenti dichiarativi e quelli costitutivi, ecc.V. retro nota 56.
 Nel nostro caso, si può affermare, sul dato testuale della direttiva 2008 (art. 6), sul tenore delle precedenti fonti normative, comunitarie e nazionali, e, da ultimo, sui richiamati indirizzi della giurisprudenza della C.G.C.E., che il momento costitutivo della formazione del prodotto ovvero della cessazione della qualifica di rifiuto è da correlare alla (nozione di  completamento di una)  “operazione di recupero, ecc.” (in inglese: “When it is undergone a recovery, ecc.” ; in francese: “ losqu’ils ont subi une opération  de valorisation, ecc.”).
 

(61)  Si rilegga il “considerando” n. 1 del Reg. che prevede: “ È necessario assicurare che i prodotti che beneficiano della libera circolazione dei beni all’interno della Comunità soddisfino requisiti che offrano un grado elevato di protezione di interessi pubblici come la salute e la sicurezza in generale, la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro nonché la protezione dei consumatori, la protezione dell’ambiente e la sicurezza pubblica, assicurando che la libera circolazione dei prodotti non sia limitata in misura maggiore di quanto consentito ai sensi della normativa comunitaria di armonizzazione o altre norme comunitarie in materia. Di conseguenza, si dovrebbero prevedere norme sull’accreditamento, la vigilanza del mercato, i controlli dei prodotti provenienti da paesi terzi e la marcatura CE.”
 

(62)  Quando si parla dell’accertamento cui segue una “certificazione della qualità”  si vuole indicare  una “…. procedura con la quale un soggetto verificatore esterno all’impresa, terzo e indipendente, che sia a ciò autorizzato (dal cd. organismo certificatore), fornisce attestazione scritta che un prodotto, un processo produttivo o un servizio, a seguito di valutazione, è conforme ai requisiti specificati da norme tecniche, garantendone la validità nel tempo attraverso un’adeguata attività di sorveglianza” (nel nostro caso, triennale..). Così, TAR Molise 11 febbraio 2003, n. 187; v. anche Consiglio di Stato sez. IV, 14 ottobre 2005, n. 5800.
 

(63)  Il Reg. investe di tale incombenza anche  “…. qualsiasi altro verificatore ambientale” di cui a Regolamento  EMAS n. 1221/2009.
 

(64)  In tema v., da ultimo, F. Ciccariello, sotto la voce “Certificazione di qualità”, dell’Enciclopedia Giuridica, Il Diritto, de Il Sole 24 Ore, diretta da  S. Patti, 2003, vol.  3, pag. 77, ed ivi richiami  bibliografici e giurisprudenziali.  Il sistema comunitaria relativo alle “norme tecniche” prevede, allo stato, tre tipologie di prescrizioni:  
- le ”norme tecniche” facoltative,  sono quelle, la cui osservanza non è obbligatoria per l’operatore, ed hanno a oggetto alcuni specifici standard al fine di conseguire vantaggi  concorrenziali (la così detta qualità competitiva);
- le “regole tecniche” obbligatorie e vincolanti (relative ad alcuni requisiti o  parametri  i quali sono posti a tutela di beni a carattere primario e indefettibile come la sicurezza, l’ambiente,  la salute sociale);
- le  “norme armonizzate” si tratta di disposizioni il cui rispetto attribuisce una presunzione di conformità ai requisiti essenziali fissati dalle direttive, alleviando il fabbricante dall’onere della relativa prova. Il loro rispetto resta comunque volontario, nel senso che l’imprenditore  può sempre far riferimento ad altre specifiche tecniche per soddisfare i requisiti imposti.
E’ appena il caso di aggiungere che le norme tecniche imposte dal Reg. n. 333/2011 sono del primo tipo, obbligatorie e vincolanti sin dal 9 ottobre dello scorso anno.   
 

(65)  A seguito di un rapporto contrattuale instauratosi fra dette parti. Sulla natura giuridica del “contratto di certificazione”, v., come isolato precedente, Tribunale di Monza 4 febbraio 2004, in Contratti, 2004, pag. 809  il quale - sul presupposto che  il rapporto negoziale che si instaura tra l’organismo di certificazione e l’impresa committente si fonda su “ …il conferimento di un incarico avente ad oggetto lo svolgimento di un’attività di ispezione e certificazione”, assegnato ad un soggetto il quale, “… pur dovendosi qualificare come  “privato”, si trova ad operare in modo indipendente ed improntato a criteri di terzietà» -  ha negato la riconducibilità del contratto de quo alle “altre figure contrattuali tipiche” (come per es. il mandato o il contratto di servizi) che non sarebbero  compatibili con l’autonomia e l’indipendenza dell’incaricato,  collocandolo, di conseguenza, nella “categoria dei cd. contratti atipici o innominati”.
In definitiva, la causa di detto contratto, volto ad “… ottenere, dal soggetto che svolge un’attività di ispezione e certificazione […], una prestazione sul mercato della attività o del prodotto del richiedente”, avrebbe per oggetto un’”obbligazione di mezzi”.
 

(66)  Per le ragioni esposte a nota precedente. Sul piano applicativo, come rileva F. Ciccariello, op. cit., pag. 79, la  prassi certificativa assume rilevanza giuridica anche nei rapporti di scambio tra imprese committenti e fornitori. Premesso che, nell’espressione certificazione di qualità, il termine “qualità” non assume il significativo accolto dal codice civile, derivando dalla  mera e oggettiva conformità del bene al modello tecnico adottato. Non  può però negarsi che l’imposizione normativa di specifiche tecniche ovvero il richiamo, nel contratto di compravendita, di standard volontariamente adottati (ma non è il nostro caso ove le prescrizioni tecniche del Reg. sono obbligatorie), renda questa normazione tecnica disciplina concorrente con le clausole contrattuali per fissare l’esatto ambito dell’obbligazione assunta dal fornitore – venditore.
Secondo tale approccio, può correttamente affermarsi che le qualità attestate da un “certificato di prodotto”  rivestano, nello schema contrattuale, il valore di qualità rilevanti,  ai sensi e per l’effetto di cui all’art. 1497 c.c. (sulla mancanza di qualità della cosa venduta). Pertanto, nel caso di certificazione obbligatoria, il mancato rispetto dei parametri imposti (nel caso sulla qualità del prodotto secondo i criteri tecnici introdotti), configurerebbe  un’ipotesi di assenza delle “qualità essenziali” e , nei casi più gravi, di vendita di aliud pro alio (a differenza della  certificazione volontaria, in cui la mancanza di detti parametri potrebbe da luogo alla assenza delle  “qualità promesse”; v. in  tal senso il richiamato Autore).
 

(67)  Sul tema, in un articolo apparso sul quotidiano  “Il sole 24 Ore” del 15.9.2008, titolato, “I controlli affidati a soggetti privati”,  M. Fabrizio si chiede se il certificatore  possa ricadere nella figura di “incaricato di pubblico servizio” (v. art. 358 codice penale) con le conseguenze, anche penali, previste  in caso di condotte delittuose (corruzione, abuso, rifiuto di atti d’ufficio, ecc.). L’interrogativo rimane senza risposta ma, sul piano amministrativo sostanziale, l’Autore evidenzia la novità delle certificazioni ambientali e di qualità soprattutto sotto il profilo della loro efficacia sostitutiva  rispetto ai controlli amministrativi, con riferimento, nell’occasione, all’art. 30 della legge n. 133/2008 (c.d. Manovra d’estate).
In questa sede, è appena il caso di rilevare, che la norma richiamata è assai mal formulata, ha un ambito di intervento molto ristretto, necessita di decreti attuativi, e non sembra abbia avuto in sorte un grande destino. Altrettanto dicasi dell’art. 18 della legge n. 93/2001, poi abrogata, relativa alle autorizzazioni ambientali. Da ultimo, merita ricordare ll’art. 209 del T.U. ambientale, il cui ambito di intervento, oggettivamente ristretto, è inoltre accompagnato dal doveroso rispetto di tanti oneri procedimentali e documentali sostitutivi da ridurre concretamente l’utilità del suo impiego peraltro facoltativo.  Comunque lo stesso Fabrizio, nel testo dell’articolo, parla di “controlli privati svolti da parte degli enti di certificazione accreditati”.
 

(68)  Sulla locuzione “certificazione di qualità” v. nota 62.
 Componenti operative del ”sistema qualità” sono i c.d. organismi di certificazione – comunemente definiti anche “operatori della valutazione di conformità” – il cui precipuo compito è, appunto, quello di verificare la rispondenza agli standard qualitativi di riferimento di un prodotto o sistema di gestione aziendale, rilasciando, all’esito, la relativa attestazione (il certificato di qualità). Il compito istituzionalmente assegnato a tali organismi (enti statali, enti privati senza scopo di lucro e società commerciali) di svolgere l’attività di ispezione e controllo con professionalità e competenza ed in modo  imparziale ed obiettivo ne impone la qualità di parte terza ed indipendente.
 

(69)  Il  par. 20, dell’art. 2  definisce il   «verificatore ambientale» come:
“a) un organismo di valutazione della conformità a norma del regolamento (CE) n. 765/2008, un’associazione o un gruppo di tali organismi, che abbia ottenuto l’accreditamento secondo quanto previsto dal presente regolamento; oppure
b) qualsiasi persona fisica o giuridica, associazione o gruppo di persone fisiche o giuridiche che abbia ottenuto l’abilitazione a svolgere le attività di verifica e convalida secondo quanto previsto dal presente regolamento”.
 

(70)  L’art.  23 detta:
“La sorveglianza delle attività di verifica e convalida svolte dai verificatori ambientali:
a) nello Stato membro in cui sono stati accreditati o abilitati, è esercitata dall’organismo che ha concesso l’accreditamento o l’abilitazione;
b) in un paese terzo, è esercitata dall’organismo che ha concesso l’accreditamento o l’abilitazione al verificatore ambientale per tali attività;
c) in uno Stato membro diverso da quello in cui sono stati accreditati o abilitati, è esercitata dall’organismo di accreditamento o di abilitazione dello Stato membro in cui la verifica ha luogo”.
 

(71)  Relativa al perfezionamento dell’EoW al momento della consegna materiale al terzo.
 

(72)  In proposito, D. Roettgen, op. cit. pag. 64/65, dopo aver ritenuto “…. del tutto condivisibile la scelta operata dal Regolamento….di prendere finalmente le distanze dalla precedente (e dannosa) giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza 19 giungo 2003, causa C-440/00)  - che aveva ritenuto che la qualifica di rifiuto  di un rottame ferroso cessasse  solo nel momento in cui questo fosse stato sottoposto ad un trattamento tale  da ottenere un materiale nuovo  (cioè fosse fuso per ottenere dei nuovi lingotti) .. protraendo inutilmente il lasso temporale  durante il quale una sostanze o un oggetto continuava ad essere un rifiuto anziché  un autentico prodotto)…” - osserva poi che il Reg. “anticipa questo momento”  anche se “continua ad assumere un atteggiamento piuttosto cauto” tanto da riportare  la cessazione della qualifica del rifiuto al momento del “trasferimento” (fisico)  del materiale.  
Al  rilievo di eccessiva cautela, l’A. aggiunge che  “ questa l’impostazione non risulta esente da criticità in quanto comporta che i magazzini del recuperatore….continuano a sottostare alla normativa sui rifiuti… fino al trasferimento”.  Tale disciplina, avrebbe come ulteriore conseguenza negativa  di “… costituire un incentivo a  movimentare il prima possibile il rifiuto che ha raggiunto lo stato di EoW  aumentando in modo artificioso il numero dei trasporti e rendendo più difficile la loro tracciabilità…..” (?). In definitiva, l’imbarazzo che si avverte sulla “cautela” del Regolamento viene poi riassorbita e finisce per essere  acriticamente accettata.          
 

(73)  Dopo la stesura della presente ricerca, ho avuto modo di leggere l’articolo di F. Giampietro e M.G. Boccia, in “Ambiente e Sviluppo”, n. 2/2012, dal titolo “Recupero dei rottami metallici: il Regolamento UE n. 333/2011 è compatibile con la Direttiva n. 2008/98 CE?”,  cui rinvio per ampi richiami di giurisprudenza e dottrina e per la indicazione di ulteriori, stringenti argomenti in oridne alla ritenuta illegittimità del Regolamento, per eccesso di delega, con riferimento al momento di cessazione della qualifica di rifiuto (riportato all’atto di “cessione” dei rottami metallici anziché all’avvenuto recupero) oltre che per violazione dei principi di “proporzionalità” e di “non discriminazione”.  Da ultimo, v., altresì,  A. Pierobon, “Il Regolamento UE n. 333/2011 e il mercato rovesciato dei rottami metallici”, in “Diritto e Giurisprudenza agraria, alimenatare e dell’ambiente”, n. 2/2012.
 

(74)  Come prevedevo e lamentavo nella mia nota “La nozione comunitaria di rifiuto…”, in  Ambiente, n. 10/2000, pag. 907.
 

(75)  Mi riferisco al lavoro di Natalino Irti, “Nichilismo giuridico” , Laterza, Bari, 2004.  
 

(76)  La frase è dell’Autore di cui a nota precedente.
 

(77)  Osserva, in proposito, lrti, con espressioni icastiche: “Ed ecco, allora, i fenomeni già diagnosticati. Il valore dell’unit&

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